Due anni fa, nell’estate torrida dei Tuttolomondo, nessuno aveva mosso ciglio. Il re delle affissioni Dario Mirri vinse il bando dell’Amministrazione e, sfruttando l’onda emotiva della piazza (inerme di fronte all’ennesimo fallimento) e il fascino dell’imprenditore homemade, portò a casa il Palermo a zero euro, diventandone presidente. Fu un tripudio. Poco prima, durante la transizione dagli avventurieri inglesi al duo Foschi-De Angeli, il patron si era già distinto in qualche modo, versando nelle casse societarie un bel gruzzolo (4 milioni) per pagare gli stipendi ai calciatori ed evitare penalizzazioni in classifica. Aveva ottenuto in cambio la possibilità di gestire la cartellonistica dello stadio e un grosso credito nei confronti dell’ambiente.
Il campionato di Serie D stravinto, e interrotto a metà per l’esplosione della pandemia, ha rimandato gli inevitabili problemi che riempiono le cronache di questi giorni. Problemi innescati dalla scarsa capacità di Mirri di fare squadra. Gli è accaduto spesso nel corso della sua vita professionale, come quando si improvvisò editore e finì in combutta con la famiglia Alessi, altro colosso palermitano della pubblicità, per la gestione del quotidiano online Live Sicilia. Il contenzioso fu poi risolto in tribunale.
Con Di Piazza non si è ancora arrivati alle carte bollate. L’imprenditore italo-americano, entrato in Hera Hora (la holding che controlla il Palermo Football Club) al 40%, ha esercitato il diritto di recesso e sarà fuori in pochi mesi. I due non si sono mai sopportati né parlati, tanto che il paisà, prima dimessosi da vicepresidente del club, ha dichiarato più volte di aver appreso le notizie “di campo” dai giornali. L’uscita di scena di uno dei soci fondatori sembrava aver convinto Mirri a prelevare la parte restante del pacchetto azionario. Ma le buone intenzioni sono entrate in conflitto con la situazione finanziaria del Palermo che quest’anno è in perdita come non mai: gli ingressi del botteghino sono azzerati, ma le spese (parliamo di stipendi di giocatori e staff) resistono.
Ecco perché Mirri ha deciso di cercare un socio (un altro!), ma laddove se ne presentasse l’opportunità, potrebbe cedere il giocattolo per intero. Il club, che abita a metà classifica del girone C di Serie C, è valutato 15 milioni di euro dalla società di consulenza PricewaterhouseCoopers. “Non sarò mai un intralcio alla crescita e allo sviluppo del Palermo”, ha dichiarato il presidente con tono dimesso. Ma i tifosi hanno già fiutato il pericolo, chiedendogli di farsi da parte. I risultati sul campo non arrivano e la società brancola nel buio. Meglio una sterzata subito. D’altronde, possiamo capirlo. Il calcio ha sempre rappresentato per Mirri e la famiglia Damir un investimento con tornaconto, e non soltanto un atto di fede. Sfruttando la benevolenza del sindaco Leoluca Orlando, che l’aveva accolto a braccia aperta al timone del club, Mirri voleva allargare la sfera dei propri interessi e prendersi l’area dell’ex centrale Enel (4.800 mq), dismessa da vent’anni, per trasformarla in una struttura ricettiva. Sarebbe servita una licenza in deroga al piano regolatore, che il sindaco non aveva la facoltà di concedergli e il Consiglio comunale, nonostante il pressing del primo cittadino, non ha approvato. L’Ostello Bello, pensato da uno dei nipoti del generale Dalla Chiesa, così è rimasto un sogno.
Avrebbe voluto far diventare il Palermo una fonte di guadagno, senza curarsi troppo della devozione di un popolo innamorato del pallone. Non ce l’ha fatta e ora è pronto a smobilitare, garantendo però un ultimo investimento a cui nemmeno Di Piazza, nonostante l’epurazione, potrà rinunciare: il nuovo centro sportivo di Torretta (valore: 6 milioni di euro). Un asset fondamentale per ridare prestigio al marchio e speranza alla tifoseria, per attrarre nuovi investimenti. Magari un vero compratore. Che voglia trarre vantaggi dal calcio e dal Palermo, ma restituire alla quinta città d’Italia la Serie A.