I miei Florio erano leoni moderni

Oggi ci s’illude con le promesse, domani ci s’ingannerà con le menzogne. Dopodiché c’è l’oblio. “Non immaginavo che a Palermo potesse esserci questo fervore commerciale, così mi dicono…”. Stefania Auci, trapanese, insegnante di sostegno, autrice de I Leoni di Sicilia, la saga dei Florio – un libro edito da Nord dallo straordinario successo – in una passeggiata di controra a piazza Marina racconta quello che i suoi lettori, in Veneto, le dicevano durante una presentazione.

Che non lo sappiano a Vicenza, è comprensibile, temo che anche per i siciliani sia una novità.

“Non riconosciamo il valore di ciò che ci appartiene, vogliamo soltanto demolire… il siciliano non sa raccontarsi; nessuna narrazione ufficiale – faccio un esempio – dice che la rivoluzione del ’48 inizia a Messina… lo splendore della propria terra, il siciliano, non se lo sa spiegare».

Diciamolo.

“Diciamolo: il siciliano è il nemico di se stesso”.

È questa la morale della favola Florio, la dinastia imprenditoriale per l’intero Ottocento presente nella scena del mondo, “con un bilancio commerciale pari a quello di un qualunque stato sovrano di media grandezza”, e adesso senza neppure una targa che li ricordi in via dei Materassai, a Palermo?

Per la storia industriale italiana “via dei Materassai” – dove nasce la ditta Florio – è ben più che il Lingotto di Torino.

“… e non è neppure vero che siano stati i Savoia, con lo Stato Unitario, ad affossare il genio imprenditoriale dei Florio; la loro è la tipica vicenda in un cui la finanza inghiotte l’industria; c’è un ben preciso contesto, basti ricordare lo scandalo della Banca Romana, con il Credito Mobiliare che ha uno sportello presso il Banco Florio e che con il crollo costringe la famiglia a privarsi della liquidità per onorare la fiducia di tutti i clienti; il marchio Florio, a cavallo dei due secoli, fino all’esito della Grande Guerra, è l’emblema di chi costruisce un impero commerciale, perfino cosmopolita: da una putia di spezie per arrivare alle tonnare, quindi i piroscafi, il commercio dello zolfo…”.

Sangue di popolo, quello di Paolo Florio che scappa dalle macerie del terremoto in Calabria nel 1799 e s’innesta in una Sicilia viva e non spenta come quella di oggi con la modernità bella che compiuta.

“I Florio erano proiettati nel giro internazionale, avevano la capacità di importare la tecnologia, di fare proprio ciò che era stato sperimentato altrove; sapevano intercettare il cambiamento, sapevano leggere nella vita degli altri ed ebbero – primi su tutti gli altri imprenditori – consapevolezza di un’urgenza nella società di massa: l’opinione pubblica, per averla dalla propria parte e farne strumento di pressione politica; occupandomi dei Florio non mi sono certo impegnata nei cartagloria dei santi”.

Il racconto di una dinastia industriale è un canone letterario, quella dei Buddenbrook – il romanzo di Thomas Mann – si consuma nel giro di quattro generazioni, quella dei Florio in tre e però, appunto, più che il Verfall, il declino, colpisce la saga: il nostro Via col vento, è offensivo definire così i Leoni?

“Ci mancherebbe, qualcuno ha chiesto d’incontrarmi per rimproverarmi”.

A proposito di cosa?

“Per dirmi: lei ha fatto un remake di Beautiful con i nomi della storia vera”.

Ora capisco perché preso dalla lettura, ho perso l’aereo pur essendo seduto davanti al gate, non riuscivo a staccarmi dalle pagine. In un certo senso quel volo perso è la mia recensione.

“Mi spiace ma non… non riesco a riavermi da questa informazione”.

Non faccio testo, non leggo narrativa, i Leoni di Sicilia è un romanzo storico – sfascia i luoghi comuni sull’arretratezza del Sud – ma possiamo fare un gioco: siamo in via dei Materassai, tra cinque anni…

“Non un gioco, una divinazione”.

Quando ci sarà la serie tivù, con la moltiplicazione dei lettori negli Stati Uniti, in Germania e in Olanda, in Spagna e in Francia in spettatori, questa via diventerà una meta – un po’ come gli Iblei per Montalbano – solo che i Florio sono stati carne, ossa e sangue e non personaggi dell’immaginario.

“Intanto aspetto di vedere cammello… per adesso l’unica targa che ricorda la famiglia di Paolo, di Ignazio e del marito di Franca è quella di questa officina”.

Eccola, al 32 di via dei Materassai c’è un’officina meccanica. Un teschio ingentilito da fiori stampati sulla calotta cranica così recita: Officina Florio.

“Il dettaglio dice tutto”, spiega ancora Stefania Auci: “le maniglie della porta, sono fatte con due pistoni del motore, l’imprinting è ancora una volta industriale”.

Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio :

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