L’operazione “materasso” e l’elogio del silenzio. Perché tra silenzi sensati, o almeno pensati, e discorsi senza senso, “molto rumore per nulla”, si gioca la partita del Quirinale.
Perché, a ben guardare, piano piano si fa chiaro l’intreccio di cose viste o lette o intuite o anche solo immaginate. Impercettibili coincidenze, piccoli indizi senza importanza, storie “minime” che, dipanandosi, formano una storia più “grande”.
In altri tempi dalle parti del Quirinale avrebbero lasciato trapelare un filo di irritazione davanti “alla strumentalizzazione del nome del presidente Mattarella” in un crescendo di voti a Montecitorio.
Invece, silenzio. “Un silenzio primordiale sul quale la parola scivola e si muove, come il cigno sull’acqua”, per dirla col filosofo Jean Guitton che prese parte, da laico, al Concilio Vaticano II. Come nella dodicesima regola dei gesuiti: “La parola sorge dal silenzio, e al silenzio ritorna”.
Non importa se il deputato di Fratelli d’Italia e questore della Camera, Edmondo Cirielli dichiara: “Stupisce molto il silenzio del presidente della Repubblica sull’utilizzo del Suo nome per una conta interna di alcuni gruppi parlamentari. A meno che fin dall’inizio il racconto che non volesse essere riconfermato fosse solo un racconto”.
Men che meno importano i meme, come si chiamano ora le vignette o le imitazioni dei burloni del web, i quali fanno finta di avvistare Mattarella in luoghi improbabili come le vette del Machu Picchu in Perù, con tanto di poncho e berrettino di alpaca.
Ricordate “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe? Il racconto-simbolo dei canoni del poliziesco ci insegna che la tecnica migliore per celare qualcosa è proprio quella di ostentarla, eclissandola alla luce del sole.
E andiamo al materasso, dettaglio infinitesimo di un trasloco presidenziale, suggello della fine di un’epoca: la scadenza del mandato di Sergio Mattarella al Quirinale e la sua scelta di lasciare lo “storico” appartamento di proprietà a Palermo per vivere “quel che resta del giorno” a Roma, tra l’impegno al Senato, di cui diventa componente di diritto e a vita, e gli affetti più cari, figli e nipoti.
Come è universalmente noto, Mattarella ha più volte declinato l’invito a essere ricandidato alla presidenza della Repubblica e ha pure già trovato una casa in affitto a Roma per il dopo Quirinale.
Con voluto “olimpico” distacco, il capo dello Stato in carica ha lasciato Roma proprio durante i preliminari delle votazioni “presidenziali”, allontanandosi dai palazzi del potere e dalla bagarre quirinalizia, ben sapendo che “il contesto” di quei palazzi non avrebbe mai potuto mostrare al mondo e al paese la virtù della decenza in politica.
Specie quando la tecnocrazia assume il volto delle istituzioni. Quando lo stesso presidente del Consiglio Draghi, curriculum tra “i migliori” nella finanza globale e finora nessuna legittimazione di voto, va a trattare in prima persona con i leader di tutti gli schieramenti il suo personale “upgrade” a prima carica dello Stato e la composizione del governo che verrà.
Da uomo accorto qual è, Draghi avrebbe dovuto muoversi “coi piedi di piombo”, ricordando che “è meglio peccare per difetto che per eccesso”, come predicava Baltasar Gracián, gesuita spagnolo del Siglo de Oro. Uno che si specchiava “con cara de malicia”, con “volto malizioso” nelle inquietudini del barocco e nelle ambiguità del mondo dove, allora come ora, si fa fatica a discernere tra verità e menzogne. E sfornava “conceptos”, pillole di saggezza come: “Las cosas no pasan por lo que son, sino por lo que parecen: son raros los que miran por dentro y muchos los que se pagan de lo aparente”.
Se le apparenze contano e la forma è sostanza, ci sarà una ragione per la “operazione materasso”, icona di un trasloco voluto nei tempi e nei modi ritenuti opportuni.
Un trasloco senza brusii, documentano le cronache. Nello stile della casa. Con operai che si muovono cauti, a differenza dei grandi elettori al Parlamento della Repubblica. E trasportano masserizie borghesi verso un camion posteggiato dietro l’angolo per non intralciare il traffico che a Palermo è già “il problema”, per citare Johnny Stecchino. Scatolone dopo scatolone fino ad arrivare al materasso col suo involucro giallo, unica nota di colore – lo testimoniano le foto – in mezzo a sequenze di suppellettili neutre.
E subito la foto del materasso si impone sulle altre, diventa “virale”. Perché mostra quella “invisibilità dell’evidenza” a cui faceva riferimento Poe.
Il meta-testo, direbbero gli studiosi di linguistica, dipana il filo degli “universi minimi”. Il materasso, quindi, non più solo oggetto tra i più intimi che accompagna tratti di vita; e neppure proprio quel “massimo che c’è”, cantato da Renzo Arbore, genio dell’irriverenza, che proprio Mattarella ha appena insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce.
“Todo modo para buscar Dios”, raccomandava negli “Esercizi Spirituali” Ignazio di Loyola, uomo d’armi prima di fondare la Compagnia del Gesù nel XVI secolo e diventare Santo.
“Todo modo”, cioè in inglese “Whatever it takes”. Anche un materasso.