Al netto dello spin – a palazzo Chigi parlano di “attesa”, al Quirinale di “incontro interlocutorio”, al Nazareno di “spiragli” – buoni per tenere alta la suspence (la rappresentazione è parte del gioco), la sensazione è che la riflessione di Mario Draghi sia sul “come” più che sul “se”. Logica dice che, alla vigilia dell’Aula, se sali al Colle (dopo aver rassegnato le dimissioni, poi respinte) o vai a dire che, dopo attenta ricognizione, non ci sono le condizioni nemmeno per andare in Parlamento o stai cercando il modo per andare avanti. Magari chiedendo qualche prezioso consiglio a una figura esperta come Mattarella. Insomma, ha capito che non può sottarsi alla grande chiamata nazionale e internazionale.
Il problema è la scarsa dimestichezza con la politica da parte del premier e di parecchi dei suoi consiglieri, come racconta la vicenda Quirinale. Per cui le sue prime mosse della giornata hanno l’effetto di complicare una situazione che così complicata non era più. Preferendo gli incontri di persona ai telefoni, Draghi ha ritenuto opportuno ricevere Enrico Letta a palazzo Chigi, dopo aver fatto sapere per giorni, con aristocratico distacco, che non era disposto a parlare con nessuno per fare delle valutazioni. Un vero pasticcio col vecchio Silvio, impegnato da giorni a tenere agganciato Salvini che non aspetta altro se non un pretesto per correre al voto: “Ma come, a noi rifiuta una verifica politica e la prima cosa che fa è ricevere il segretario del Pd?”. E assieme a Salvini fa trapelare durante il pranzo di Villa Grande “grande sconcerto”. Mica si è fatto vivo con Berlusconi il premier. Ha cioè incontrato un amico il cui sostegno è scontato senza un confronto con chi, in un campo più problematico, si è speso molto per continuare a sostenerlo. E ci risiamo con l’errore che gli fu fatale sul Colle: l’assenza di un regista a palazzo Chigi che sonda, fa colloqui, riferisce impressioni, non espone il premier direttamente, uomo anche con alcune rigidità pari a un’alta concezione di sé. Cose che Brunetta e Tabacci capiscono da quando avevano i calzoni alla zuava.
E poi i Cinque Stelle, col loro psicodramma infinito. Il premier vorrebbe un segnale entro stasera per non rimanere vittima delle sue macchinazioni: dopo aver detto “mai senza i Cinque stelle” e “mai un Draghi bis”, ha bisogno, così avrebbe spiegato nell’incontro col capo dello Stato, che ci sia una scissione per poter andare avanti così. Una vertigine: dalle preghiere di Biden, di Zelensky, delle cancellerie europee al problema di tal Crippa, ragazzo che tra le sue qualità non annovera il coraggio. Anche perché, anche in questo caso, ci fosse qualcuno che lo avesse chiamato per conto del premier.
Facciamola breve, in una giornata che breve non è. Se, con scarsa dimestichezza con la politica, il premier cerca segnali di razionalità in un sistema politico collassato, contribuendo al disordine, può, sin da subito, aggiungere l’aggettivo “irrevocabili” alle dimissioni. Ma se, come pare, ha capito che non può andarsene c’è da sperare che qualcuno gli suggerisca di fare ciò che sa fa fare. Sottoporre un programma minimo di fine legislatura, andare avanti e parlare al paese. Con chi ci sta prima che si infastidiscano tutti e si vada in scena un bis del Colle.