Berlinguer ha sempre perso le sue battaglie etiche e civili, da quella in difesa della vergine santa Maria Goretti a quella per svuotare di ogni radicalità, e se possibile ritardare, l’arrivo del divorzio in Italia, via via fino alla pretesa di imporre la diversità antropologica dei comunisti italiani nella fumosa e confusa questione morale piano piano divenuta il segnacolo in vessillo di un certo parassitismo azionista (Scalfari) che gli era estraneo ma se lo mangiò nell’insalata del mito.
Nell’Italia e nella sinistra J-Ax di oggi Berlinguer sarebbe un isolato e uno sconfitto, una vecchia
maschera con un sorriso disperato in braccio a Benigni. Ha perso anche in politica: ha perso il suo generoso eurocomunismo, un flatus vocis emesso per cercare di contrastare la “deriva socialdemocratica” e distanziarsi dalla brutta vecchiaia dell’Unione sovietica, dalle compromissioni materiali e ideologiche sofferte con slancio e attivismo dalla sua generazione di funzionari e capi del Pci dopo la scomparsa di Togliatti, insomma il crollo che avrebbe travolto partito e popolo nel giro di qualche anno dopo la sua morte: vinsero invece Reagan, Thatcher, Giovanni Paolo II, Walesa e altri campioni dell’anticomunismo più o meno profetico, non lui, non la sua grande ambizione che si confessò impotente quanto realista quando disse che la democrazia italiana era più sicura nella Nato e che la spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico era in via di esaurimento, salvo poi resuscitare “la vivente e valida lezione di Lenin”.
Berlinguer non ha integrato, nonostante il suo impulso nella lotta al “diciannovismo” (1977) e la sua coraggiosa spinta alla difesa dello stato (anche con la delazione di massa), violenza e terrorismo: fu il partito armato a sfidarlo e batterlo sul campo, quando cercò di allearsi con la Dc di Andreotti e Franco Evangelisti, rapendo Moro e ammazzandolo dopo cinquantacinque giorni di agonia della Repubblica, seminando morte e prostrazione nella campagna di primavera. Fu costretto a tradire sé stesso e la forte tela di ragno del compromesso storico, rifluendo in una demagogia veteroclassista che lo portò di nuovo a perdere clamorosamente la sfida con Bettino Craxi e il referendum sulla scala mobile. Continua su ilfoglio.it