L’utilizzo anomalo del Fondo sanitario, dove compaiono 29 milioni per il finanziamento dell’ARPA (che fa capo al Territorio e Ambiente); le ricapitalizzazioni ingiustificate, e a tratti ingiustificabili, verso le partecipate in perdita; l’assenza di una ricognizione straordinaria del patrimonio immobiliare. Sono questi, assieme alla vicenda della spalmatura del disavanzo, i capi d’imputazione formulati dalla Corte dei Conti nei confronti della Regione siciliana. E del governo Schifani, che pur essendo in carica da poco più di un anno, ha già avuto la possibilità di mettere mano al Rendiconto 2021. Quello oggetto di parifica, su cui la magistratura contabile – per l’appunto – ha sospeso il giudizio.
Attenzione però. Ciò che il rendiconto contiene è il frutto della gestione di Musumeci e Armao, che solo a giugno dell’anno scorso, anno domini 2022, hanno finito di amministrare i conti pubblici della Sicilia. Far quadrare tutto e riparare le falle, però, è un compito specifico dei loro successori: nell’ordine Renato Schifani e l’assessore all’Economia Marco Falcone. I quali, però, non si muovono nella direzione auspicata dai giudici. Il 25 gennaio scorso, giorno dell’approvazione del Rendiconto 2021 in giunta, esultavano parlando di “numeri in chiaro miglioramento”. Il governatore citava il dato sull’indebitamento, passato da 6,8 a 6,1 miliardi rispetto al 2020, “mentre al contrario aumentano i pagamenti effettuati, da 18 milioni nel 2020 a 23,5 nel 2021. Ciò significa più liquidità e più risorse immesse nell’economia siciliana. Infine, aumenta anche la cassa corrente. Sono risultati su cui il governo regionale intende costruire un equilibrio finanziario sempre più virtuoso e certo”. Ma non era tutto, perché secondo quel documento – oggi congelato dalla Corte – “stiamo mandando avanti un’azione decisa e proficua di regolarizzazione dei conti della Regione, grazie alla quale potremo essere reattivi rispetto alle esigenze sociali ed economiche della Sicilia”.
Toni trionfali che sbattono sulla realtà fattuale. Da cui emerge una cosa: il giudizio di parificazione è stato sospeso in attesa che la Consulta sblocchi la pratica sulla rateizzazione del disavanzo. Resta il fatto che sia il Conto economico che lo Stato patrimoniale dell’ente riportano numerose criticità da pennarello blu. La cosa peggiore di tutte, però, è che nessuno se ne occupa. Il problema delle prebende erogate all’Ast o a Sicilia Digitale non è nell’agenda del governo, che in questa prima fase non è stata neppure sfiorato dalla “questione morale”; tanto meno la realizzazione di una mappatura del patrimonio immobiliare, utile magari a dissotterrare lo scandalo Spi. Non si tratta di un fattore secondario: l’indecifrabilità degli edifici dei palazzi regionali – nel senso che non esiste una stima del numero, tanto meno del valore – continuerà a rappresentare una inadempienza che si trascina dalla precedente legislatura, quando alla guida dell’assessorato all’Economia c’era Gaetano Armao.
L’atteggiamento assunto da Schifani in questo primo anno di mandato, non solo sulla risoluzione di queste vicende, ma anche nei confronti dello stesso Armao (riammesso nel “cerchio” grazie ai suoi buoni uffici), testimonia una irreversibilità dei processi che dovrebbe preoccupare i siciliani più di quanto non preoccupi la Corte dei Conti. Riepiloghiamo in breve. Riguardo ai “palazzi fantasma”, la magistratura asserisce che “appare ancora irrisolta la problematica riguardante la “ricognizione straordinaria del patrimonio” e la conseguente “rideterminazione del suo corretto valore” (…) sia con riferimento alla classificazione delle voci del patrimonio, sia per quanto riguarda i criteri di valutazione”. Tesi condivisa con la Procura generale e che finisce per intaccare lo Stato patrimoniale dell’ente. Un governo serio, scollegato dalla presenza ingombrante dell’ex candidato del Terzo Polo – oggi riesumato nelle vesti di consulente per i fondi extraregionali e presidente della Cts – prenderebbe la questione di petto, e tenterebbe di risolverla per dare un immediato segnale ai magistrati. Invece si limita all’attesa di un dispositivo informatico da parte di Sicilia Digitale.
La quale, Sicilia Digitale, è parte del problema. Nel più ampio asset dei carrozzoni, essa rappresenta un’entità illogica e fuori dal tempo. Una società che drena risorse alla Regione senza garantire l’effettiva funzione per cui era nata: cioè trasformarsi nel braccio operativo di Palazzo d’Orleans in materia di innovazione tecnologica e processi digitali. Invece qui succede che anche per un concorso occorra affidare all’esterno l’assistenza tecnica (ad esempio a Formez) perché la società in house della Regione ha depauperato le competenze negli anni. Nel caso di Sicilia Digitale, “in perdita nel 2020 e ricapitalizzata nel 2021”, le “Sezioni riunite hanno posto particolare attenzione in ragione della complessa situazione afferente ai reciproci rapporti debito/credito tra l’Amministrazione regionale e la società predetta”. La società avrebbe rinunciato a otto decreti ingiuntivi, ma non ai crediti nei confronti dell’Amministrazione: oltre al danno – il fatto di doverla “mantenere” per garantirne il funzionamento – si profila anche la beffa, cioè corrispondere altri milioni per non si sa quale prodigio passato. L’ex Sicilia e-servizi è solo una delle società che, senza garantire alcun profitto all’Amministrazione, continuano a gravitare nella sua orbita: dall’Ast al Parco Tecnologico e Scientifico all’Airgest, passando per gli enti in liquidazione che sopravvivono “con conseguenze economiche, relative anche ai costi della gestione commissariale, sulla finanza pubblica e sugli equilibri a tutela della legalità finanziaria”.
Ma c’è anche il capitolo sanità, un altro ramo secco. I dubbi della Corte dei Conti riguardano il Fondo sanitario e i “consistenti e reiterati disallineamenti” tra le entrate e le uscite, rispetto ai quali “l’amministrazione regionale – scrive la pm Aronica nella sua requisitoria – non ha fornito adeguate motivazioni, non consentendo l’acquisizione di dati sufficienti volti a ricostruire l’importo delle risorse disponibili alla fine del 2021”. Un elemento che secondo la Procura è “indice di una censurabile prassi, consistente nel non impegnare, nei capitoli di spesa pertinenti e per le finalità previste, somme del fondo sanitario, ponendosi in palese e reiterata violazione del principio della competenza”. Tra le spese addebitate al capitolo si trovano 29 milioni di euro per il finanziamento dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa), che invece farebbe capo all’assessorato al Territorio. Anche una parte delle entrate Irpef dovrebbero confluire nel Fondo sanitario, ma non è noto a quanto ammonti la cifra prevista. “La mancata istituzione di un capitolo di entrata”, infatti “non consente di censire con esattezza e di monitorare le entrate regionali destinate al finanziamento sanitario” generando “rappresentazioni non veritiere” delle risorse disponibili.
Il fatto che nessuno voglia affrontare queste dinamiche storiche e per molti versi fastidiose, che tolgono tempo agli annunci e ai tagli dei nastri, conferma che a Palazzo d’Orleans non è cambiato il vento. E non serviva la Corte dei Conti: le scelte fiduciarie operate da Schifani sono la testimonianza di un continuum, nel metodo e nelle intenzioni, che difficilmente potrà liberare la Sicilia da questa zavorra del mal governo. Che quasi certamente – ne sono prova le parole del presidente della Regione dopo la mancata parifica di sabato scorso – non permetterà di ripristinare un rapporto cordiale e istituzionale con i magistrati contabili. Schifani sta ad Armao, come l’assessore Amata al suo predecessore Messina. Possono cambiare i volti, ma la consistenza di certe scelte è rivelatrice della loro natura. Dell’impossibilità di rimuovere la polvere e gli scandali.