Noi palermitani abbiamo l’orgoglio nel sangue. Lo urliamo con veemenza nei quartieri più disagiati, nei mercati rionali. Lo bisbigliamo sommessamente nei corridoi dell’alta società. Siamo orgogliosi di noi stessi. Di come facciamo le cose, dei nostri costumi.
Una ricorrenza, una festa del patrono della città, una Pasquetta e noi con orgoglio sbandieriamo a petto in fuori l’importanza che diamo a ciò che facciamo, tanto da impormi l’urgenza di una domanda: saremo mica deboli di autostima? Sarà che ci portiamo dentro una sorta di sensazione di non meritare, di non essere all’altezza? E per questo pontifichiamo?
Io l’ho visto, quest’orgoglio, negli occhi lucidi dei vecchi in canottiera ai bordi dei vicoli sporchi. L’ho visto nelle mani di donne ricolme di anelli aggrappati alle dita che raccontano la malinconia di ciò che sono state quando il tempo era il loro tempo.
Ostentiamo una sicurezza che di fatto non possediamo più. Perché non riusciamo a seguire lo sviluppo dei tempi, arranchiamo, non stiamo al passo e forse per questo ci rifugiamo nel nostro passato. Che è lì, inviolabile, inscalfibile. La nostra ciambella di salvataggio, guardare indietro per la paura di vedere cosa c’è oltre e dopo.
Così ogni volta che il mondo là fuori ci riconosce un merito, un pregio, un titolo, lo sventoliamo, con buffo provincialismo.
L’orgoglio per non tirar le fuori l’amor proprio. L’amor proprio come popolo e comunità civile. Sì, a volte penso che ci vorrebbe un forte amor proprio per parlare al resto del mondo e sentirci un po’più grandi. Un orgoglio meno prepotente e cieco a far posto all’amor proprio che costruisce, che nutre, che ci fa fare cose belle.