E’ iniziata un’altra settimana dedicata alle cosuzze della Regione. Mentre fuori divampa la protesta degli agricoltori, degli sportellisti della Formazione (sfrattati da un sistema senza scrupoli) e delle famiglie degli studenti disabili (che da gennaio rischiano di rimanere senza un soldo), all’interno dei corridoi di palazzo d’Orleans e di palazzo dei Normanni – da mesi, però, il rapporto fra governo e parlamento è logoro – si riprende a parlare di faccende che non faranno la storia di questa terra.
Mentre Musumeci annuncia in pompa magna che nell’ultimo anno la Sicilia ha organizzato il maggior numero di attività per la sensibilizzazione sull’ambiente (ma un’inchiesta di Italia Oggi evidenzia come le città siciliane siano le peggiori d’Italia per qualità della vita), all’Ars, che attende di esitare una riforma dei rifiuti degna di tal nome, sono arrivate alcune norme che evidenziano l’immobilismo della Regione: tra cui, quelle di cui è relatore Franco De Domenico (Pd) e approvate ieri, che riguardano l’istituzione di un osservatore regionale sulla sicurezza degli operatori sanitari e il riordino dell’assistenza nelle aree pediatriche. Fa segnare l’ennesimo rinvio – data la richiesta d’interlocuzione da parte del governo nazionale – la riforma degli assegni vitalizi, che prevede un taglio lineare del 9% alle pensioni maturate dagli ex deputati: durerà un quinquennio e permetterà di risparmiare un milioncino l’anno; sfamerà (forse) la brama di populismo, ma senza toccare nulla.
Quisquilie, si direbbe. Anche la riforma degli ambiti territoriali e della governance dei rifiuti, dopo la cancellazione dell’articolo 1 per mano dei franchi tiratori, ha tirato in remi in barca per qualche giorno (e in attesa di sapere se la commissione “regolamento” farà un passo indietro sull’applicazione del “voto segreto”). Ma in realtà i temi di cui discutere, e sui quali per il momento la Regione non accenna la benché minima reazione, sono altri: ad esempio quello sui conti. Una questione morta e sepolta dopo il dibattito sulla questione finanziaria andato in scena, fra urla e strepiti, qualche settimana fa in assemblea. A cui Musumeci ha scelto di tamponare mediante l’affidamento di due consulenze esterne – alla società Kibernetes Srl da un lato, all’ex assessore di Caltagirone Massimo Giaconia dall’altro – per smascherare nuovi ed eventuali disallineamenti (tramite un riaccertamento straordinario sui residui attivi e passivi) e contenere la spesa. Che al momento, però, risulta bloccata.
Non è un mistero che l’approvazione dell’ultimo “collegato” – quello della quinta commissione – sia avvenuta a costo zero. Senza, cioè, le norme di spesa auspicate da numerosi enti e associazioni. Dai teatri all’antiracket. E che molti settori, come il trasporto pubblico o i talassemici, ma anche i forestali e gli ex Pip, siano in attesa di conoscere il destino di circa 141 milioni che il governo ha preteso di sbloccare nonostante l’impugnativa del Consiglio dei Ministri rispetto a una norma approvata dall’Ars il 10 luglio scorso. Citare questi esempi riporta al punto di partenza: la paralisi. La Regione, che di soldi ne ha pochi, non può spenderne (tranne che per casi isolati, come la solita Ambelia). E per sbloccare qualche operazione bisognerà attendere la data del 13 dicembre, quando finalmente – ma con sei mesi di angoscioso ritardo – la Corte dei Conti dovrebbe pronunciarsi col giudizio di parifica sul rendiconto 2018.
Il destino della Sicilia, che da Giaconia & co. attende di conoscere il valore del reale disavanzo, è appeso al debito con lo Stato che ammonta a circa 780 milioni di euro. Ossia quella parte di disavanzo che Armao, nonostante le suppliche all’ex ministro delle Finanze Giovanni Tria, non è ancora riuscito a rateizzare in trent’anni. Spera di farlo in dieci, anche se la Corte dei Conti ha già inviato messaggi negativi. Attualmente, però, non risulta un piano B. Cioè: qualora la magistratura contabile mandasse all’aria i piani dell’assessore all’Economia e di Musumeci, come farà la Regione a sopperire? Per quanto tempo ancora, e a discapito di chi, dovrà congelare fondi? Potrà appellarsi in eterno alla Consulta per ribaltare le impugnative del governo Conte e per smussare i rapporti con Roma? Ad oggi, non è dato sapersi.
Ma fra le altre risposte che mancano all’appello ce n’è una sullo scandalo di Sicilia Patrimonio Immobiliare e i 110 milioni di euro pagati estero su estero a una compagnia di avventurieri guidata dal più avventuriero di tutti: Ezio Bigotti, affarista di Pinerolo, tuttora ai domiciliari con l’accusa di corruzione. Una questione sempre più aggrovigliata per gli interessi in gioco e per il tempo che scorre inesorabile e che, dopo essersi timidamente inserita nel calendario della commissione regionale Antimafia (con l’audizione dell’assessore Gaetano Armao), si è nuovamente vaporizzata nei corridoi dell’Ars. Al momento il presidente della commissione Claudio Fava è impegnato con una pressante inchiesta sul ciclo dei rifiuti, tema che va molto di moda. Ma qua e là, fra un’audizione e l’altra, magari con i protagonisti politici del passato (da Cuffaro in giù), dovrebbe raccogliere qualche info in più sullo scandalo del secolo.
Tutto ebbe inizio nel 2007, quando la Regione decise di affidare il censimento del patrimonio immobiliare a una sua partecipata – la Spi – il cui amministratore delegato (Bigotti, appunto) era in capo a una società consortile con una grande inclinazione per i paradisi fiscali (come il Lussemburgo). La cifra prevista inizialmente per effettuare il censimento, tredici milioni, è man mano lievitata nel tempo, fattura dopo fattura. Nessuno, ancora oggi e nonostante le sperpero, ha individuato le responsabilità e i motivi di questa truffa ai danni dei siciliani. E sembra che interessi a pochi.
Tre i temi inevasi dal governo regionale ce n’è un altro prettamente politico. Il rimpasto. Ma prima di arrivare al rimpasto vero e proprio, fissato a cavallo dell’estate, poi “ritirato” da Musumeci, e infine riprogrammato per gennaio (a Forza Italia alcune cose non vanno più bene), il presidente della Regione dovrebbe spiegare perché non ha ancora riempito la casella dei Beni culturali, tenendo per sé l’interim dal marzo scorso, e dalla morte di Sebastiano Tusa. E’ mai possibile che in otto mesi non sia riuscito a trovare un profilo degno per far ripartire un settore nevralgico? Che non ci sia un politico o un tecnico, siciliano o non siciliano, capace di succedere a Tusa e proseguire il suo lavoro? E magari di puntellarlo?
Ma un’altra cosa a cui Musumeci non risponde è la voglia spasmodica di Forza Italia – il primo partito della coalizione all’Ars – di mettere alla porta l’assessore all’Economia Armao, considerato il principale responsabile del caos delle finanze, e che persino il governatore, con la scelta delle due consulenze esterne di cui si diceva in apertura, sembra aver in parte sfiduciato. Il commissario regionale azzurro, Gianfranco Micciché, lo ha ribadito nel corso del meeting di Forza Italia alle pendici dell’Etna del weekend scorso: “Armao? Su di lui non cambio idea, ci sono tante cose che non mi piacciono. Ma se il presidente Berlusconi vuole tenerlo…”. Per dargli il benservito mancano la risposta del Cav. e quella del presidente della Regione. Ma il rimpasto, oltre ad Armao, potrebbe rimescolare un po’ di carte e ridare slancio (tentar non nuoce) a un’azione di governo che fin qui si limita al compitino dell’amministrare, e non è mai sfociata nel grande piano di sviluppo (o piano Marshall) che i politici siciliani pretendono da Roma. Dimenticandosi di dare il buon esempio.