Si potrebbe forse approfittare della voglia di censimento del governo Salvini-Di Maio (featuring Giuseppe Conte) per avanzare umilmente la proposta di effettuarne uno – forse bizzarro ma utile ad illuminare un angolo in penombra della nostra società e della nostra cultura – in occasione del 21 giugno, giornata che celebra il solstizio d’estate ma anche la Festa della Musica. In sostanza bisognerebbe chiedersi: quanti professionisti delle sette note riescono a campare di queste nel Paese che si vanta d’aver dato i natali a compositori eccelsi? Quanti tra quelli che escono con un diploma in mano dai Conservatori trovano un lavoro che li ripaghi del sudore irrorato per anni sugli spartiti, sulla mentoniera del violino o sulla boccoletta del flauto? Quanti precari e disoccupati, quanti sottopagati e sfruttati conta oggi la nobile arte del fare musica? Era meglio nascere santi, poeti e navigatori piuttosto che maestri in contrabbasso?
Due anni fa, l’allora ministro della Cultura, Dario Franceschini, proprio in occasione della festosa ricorrenza del 21 giugno, si fece simpaticamente spernacchiare dopo aver proposto ai musicisti italiani di suonare, almeno quel giorno, senza compenso. Purtroppo non limitò il democratico invito ai supertitolati e strapagati divi del pianoforte o del violoncello ma, urbi et orbi, all’intera comunità musicale tricolore che s’incazzò di brutto e gliele cantò chiare ma forse avrebbe anche voluto suonargliele. Insomma, i tantissimi pagati tre giorni su trenta (quando va bene) si sentirono presi per i fondelli.
Consiglieremmo pertanto al neoministro Alberto Bonisoli – già designato nel fantagoverno pentastellato e poi traslato nel governo reale giallo-verde – di astenersi da qualsiasi invito o solenne discorso. Ma di considerare davvero l’ipotesi di un censimento: che confermerebbe un precariato diffuso e ormai incancrenito, dove su mille diplomati nei Conservatori solo un 15-20% riesce a trovare lavoro nelle orchestre delle fondazioni lirico-sinfoniche (ma a tempo determinato, passano poi lustri su lustri per le stabilizzazioni) mentre il resto insegna il proprio strumento privatamente, lavora ma sempre a singhiozzo in una scuola pubblica dove non s’è ancora capito che l’educazione musicale deve essere estesa a tappeto già dalle primarie (bussi, bussi pure al suo dirimpettaio dell’Istruzione, signor ministro, si chiama guarda caso Marco Bussetti), dà vita a quartetti cameristici all’affannosa ricerca di scritture, si inserisce a fatica in una compagnia di operette o trova dignitosamente spazio nell’orchestrina di uno stabilimento termale. I più tosti emigrano, là dove i soldi destinati alla cultura non sono inferiori all’1% del Pil.
E dunque, facciamolo questo censimento: i numeri non danzeranno certo un galop ma sfileranno tristi quanto un requiem.