Mentre i titoli di coda, lentamente, cominciano a scivolare su un’estate siciliana versione drama, ci si aspetterebbe un Renato Schifani in grande spolvero nell’attività di governo. Ce ne sarebbero di argomenti da affrontare: la prevenzione in materia d’incendi, un piano d’investimenti (serio) per il turismo, il terzo collegato alla Finanziaria (anche basta), qualche riforma (perché no?). Invece il presidente della Regione, preso dalla noia ferragostana, s’inventa un tema alternativo al classico sudoku: gli apparentamenti politici. Siccome non riesce a inventarsi una riforma o un progetto per questa disgraziata Sicilia, si traveste da leader per dire al mondo che esiste e che riveste un ruolo.
Nella rinnovata versione di capo corrente, che sembrava aver abbandonato in nome e per conto della ritrovata sintonia con il neo eletto segretario Tajani, Schifani scende in campo – in prima persona – per il rilancio di Forza Italia (anche se nega al Giornale di volersi candidare al congresso del 2024). Un partito che, superata l’angoscia per la perdita di Berlusconi, rischia anch’esso di scomparire. Eppure il governatore ha sentito l’esigenza di tratteggiare una visione “leggermente diversa da quella di Tajani”. Un modo, forse, per dare seguito alla campagna acquisti inaugurata lo scorso aprile in Sicilia, con l’aggiunta stupefacente di Giancarlo Cancelleri: il succo del discorso è che dobbiamo “guidare la transizione da partito leaderistico a partito pluralistico”, ma soprattutto “racchiudere sotto lo stesso cielo tutti coloro i quali la pensano come noi, soprattutto per un appuntamento, come quello delle elezioni europee, in cui ci si misura con il voto di preferenza”.
Schifani non spiega come, quando e perché (prendere voti, e poi?). Armonizzare l’universo centrista è una battaglia di fronte alla quale si sono arresi quasi tutti. Passi il cartello elettorale – Forza Italia ha già dato ospitalità in passato e probabilmente, in Sicilia, lo farà ancora – ma altra cosa è stare insieme, sforzarsi insieme, offrire una visione insieme. Se è mera campagna acquisti, invece, ci sta già pensando Tajani. Che dopo aver replicato all’arrivo di Cancelleri con quello di Caterina Chinnici – ma che fine hanno fatto entrambi? – adesso sta corteggiando una pletora di grillini in disaccordo con la gestione Conte. A partire da alcuni “delusi” fra i quali si potrebbe inserire la pasionaria Paola Taverna (nel Lazio). Riassume le trattative Simone Canettieri sul Foglio: “Dal telefono del vicepremier e ministro degli Esteri partono gli abboccamenti verso i pentastellati. In sua vece, il capogruppo alla Camera Paolo Barelli che ha l’incarico di sondare gli umori. La trama azzurra parte dai territori dove il M5s ha perso aderenza e per il momento lascia perdere il Parlamento: gli eletti sono tutti (o quasi) dirette emanazioni dell’Avvocato del popolo”.
Se essere un partito pluralista significa tramutarsi in un partito posticcio, con una sommatoria di classe dirigente un po’ azzoppata, Forza Italia è sulla buona strada. E non servirà Schifani a dare la scossa. Anche perché, nella logica nell’inclusivismo, il presidente della Regione non ha brillato granché. La scalata ai danni di Micciché, nel partito siciliano, è culminata con una serie di frane sui territori: da Bandiera a Siracusa, passando per Mineo e Pennino a Palermo (trattasi dei due assessori di Lagalla perennemente sulla graticola). Se si è plurali soltanto con gli amici, ed ermetici con chi critica la tua linea, sarà difficile allargare il contenitore a meno di non diventare il regno del pensiero unico (e neppure l’ottimo Berlusconi c’è riuscito).
In attesa di sondare la strategia di Schifani, molti hanno abboccato al suo travestimento da pater familias: Cuffaro, spinto da interesse elettoralistico; Saverio Romano, leader regionale di Noi Moderati; Roberto Di Mauro, braccio destro di Raffaele Lombardo, e schietto autonomista. Insomma, in questo tempo del dolce far niente, Schifani con le parole ha catturato l’attenzione dei suoi colleghi di governo. Atteso che Fratelli d’Italia e Lega si tengono alla larga dall’ipotesi di confluire nel Partito Popolare Europeo, per tutti gli altri la partita è aperta. E mettersi insieme, al di là di quello che sarà il futuro, è una delle poche strade per eleggere un parlamentare a Bruxelles (con la quota di sbarramento al 4 per cento nessun moderato è sicuro). A reggere la candela a Schifani, poi, è il solito Marcello Caruso, attuale commissario di FI nell’Isola: “Forza Italia conferma la volontà di apertura al dialogo e al confronto con tutte le forze politiche siciliane moderate con le quali vuole avviare un confronto già a partire dai prossimi giorni”.
Per fare cosa? La domanda resta. Questo tentativo aggregante, però, parte dal presupposto che per alcuni non c’è proprio spazio. Come per il marziano Renzi, che con una singola intervista si è giocato il supporto di Cateno De Luca e della stessa “Forse Italia”, come ha osato definire il partito postberlusconiano: “Non fa parte del PPE”, è la conclusione di Schifani. Che parla e opera come un fiero scudiero di valori un po’ indistinti (ormai) come “garantismo, atlantismo e liberalismo”. Lo stesso garantismo immolato qualche giorno fa dalla forca di alcune dichiarazioni sull’allungamento dei termini della carcerazione preventiva.
E’ stato uno dei commenti a latere dello stupro di Palermo, dettato dalla ricerca smaniosa di un titolo a effetto. E, probabilmente, dall’assenza di una pratica di governo costante e puntuale, come suggerito nella premessa di questa analisi. Possibile che per sopravvivere all’attenzione dell’opinione pubblica non basti un’azione compatibile con la buona politica, ammesso che ce ne siano, e serva piuttosto agitare il vessillo di salvatore della patria? Con la storia del “partito inclusivo” sta accadendo più o meno questo. E’ un diversivo. Un travestimento. In attesa della prossima emergenza.