L’ultimo smacco al governatore

Da sinistra, il sindaco di Messina, Cateno De Luca, e il presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci

A spingere Musumeci verso la fine del regno non sono soltanto le divisioni del centrodestra, e la formazione di un asse tra Micciché, Salvini e Lombardo, la cui fibra appare sempre più robusta. Ma anche l’avanzata “autonomista e meridionalista” di Cateno De Luca, che ieri s’è impossessato dei palazzi palermitani col presidente impegnato in trasferta, a Vulcano, per occuparsi da vicino delle emissioni dei gas velenosi. L’ex sindaco di Messina, che si candida a diventare sindaco di Sicilia, non ha mai nascosto le proprie ambizioni. E a spargere veleno – politicamente parlando – è un fuoriclasse. La sua non è soltanto una manovra di disturbo nei confronti di Musumeci, col quale preferirebbe giungere a duello, ma il tentativo di aprire una fase di tripolarismo che avrebbe come effetto un governo dal cuore parlamentare: “Nessuno dei tre schieramenti – ha detto De Luca – porterà a casa più di trenta deputati e avrà la maggioranza. Il prossimo esecutivo nascerà all’Ars”.

Un calcio negli stinchi per il governatore. E’ lì, nel luogo “oltraggiato” dal fedelissimo del presidente, Tuccio D’Urso, e presieduto da Miccichè, che si decideranno le sorti dell’Isola. Ed è a partire da lì che Scateno ha avviato i motori per una campagna elettorale elettrizzante, che non si esclude possa durare meno del previsto: un paio di mesi a partire da oggi, se a Musumeci saltasse in mente di dimettersi. Cosa che però non accadrà. L’ipotesi di elezioni anticipate (De Luca ha ipotizzato la data del 24 aprile) in realtà è poco verosimile. Il governo non è andato giù dopo l’imboscata sui grandi elettori, e nei prossimi mesi non ci saranno stress test in grado di incrinare (ulteriormente) la tenuta della maggioranza. Al netto del bilancio, di cui si discuterà dopo il 30 marzo. Da questo punto di vista, Musumeci non rischia nulla. E’ fuori dal palazzo che invece potrebbe consumarsi l’ennesimo strappo. Il sigillo della Meloni sulla sua “naturale ricandidatura” ha provocato un effetto domino e la candidatura di Micciché non potrebbe essere la sola: “Tra poco ci sarà anche Minardo”, ha confidato giusto ieri il presidente dell’Ars. E poi c’è De Luca, che come primo atto di sfida ha presentato, per il tramite dell’on. Lo Giudice, la sua mozione di sfiducia nei confronti del “ducetto”.

“Ma non credo che qualcuno deciderà di apporvi la firma – ha spiegato – E’ difficile rinunciare a 8 mila euro al mese. Sfiduciare il presidente vuol dire che i parlamentari vanno a casa”. De Luca provoca, ma è abbastanza lucido per leggere le situazioni dall’interno. Per capire che chiunque sia il prossimo candidato del centrodestra – Musumeci o qualcun altro poco importa – esso perderà.  “Questo governo che doveva essere quello della discontinuità è riuscito a fare peggio dei precedenti – ha detto l’ormai ex sindaco di Messina – Dopo la iattura di Crocetta è arrivata la sciagura di Musumeci”. Poi ha provato a farne una questione generazionale, sbarrando la strada a coloro i quali hanno avuto un ruolo negli ultimi cinque anni di legislatura: “Non si può delegare il futuro di questa terra ad una classe politica logorata, che vive chiusa nel Palazzo una vita completamente scollegata dalla realtà, ancorata a logiche e schemi che non esistono più”.

Musumeci preferisce il rispettoso silenzio. E in parte anche strategico. Non solo nei confronti di De Luca, che ha da sempre derubricato a questione “poco importante”, ma anche del suo sfidante numero uno: a Micciché, pur essendo tentato, non ha mai imputato di voler rompere la coalizione. Né ha mai intimato di uscire dal governo, come avvenne per molto meno quando Salvini espresse gradimento per Minardo come suo possibile erede a palazzo d’Orleans. Dopo le urla su Facebook del mese scorso, e la supercazzola di alcuni giorni fa sulla crisi di governo “che non è mai esistita”, il presidente ha preferito tacere. Forte della copertura romana di Giorgia Meloni e per evitare ulteriori strappi. Anche se è proprio la partnership con Fratelli d’Italia a essere finita sul libro nero degli alleati, Lega compresa. “Io non mi faccio battezzare da nessuno – ha ribadito De Luca -. Musumeci, invece, resta un figlio dei partiti anche dopo averci sputato sopra”. “Se Meloni propone Musumeci come candidato di Fratelli d’Italia è un conto – ha detto Micciché a Live Sicilia – se invece dice mi candido comunque con Musumeci e il resto della coalizione vada a quel paese è un altro. Spero di no, ma se avviene io mi devo preparare”.

Chi avrebbe dovuto parlare e chiarire, tra i membri del governo, l’ha fatto a malapena nella seduta di ieri. Doveva essere un processo alla sanità di Ruggero Razza, e alla gestione spregiudicata degli interventi in materia di Pnrr; si è trasformata in una rassegna per rispondere a interrogazioni e interpellanze. L’unico punto fermo, riguardo ai rapporti turbolenti fra governo e parlamento, l’ha messo Gaetano Armao: “Da parte del governo non c’è alcuna preclusione a illustrare, dare informazioni e produrre tutta la documentazione riguardante la progettazione del Pnrr”, ha assicurato il responsabile dell’Economia. Ma non parlategli d’intesa fra assessori e parlamentari: “Stravolgeremmo le norme vigenti”. Significa, in soldoni, che sarà il governo a dare le carte. E che ogni ipotesi o scenario avanzati dai deputati – che siano riferiti agli ospedali di comunità o case delle salute – non risulteranno vincolanti in alcun modo. Sotto quest’aspetto, e almeno fino al 28 febbraio (quando bisognerà presentare le cartelle di ognuno dei 238 interventi previsti dalla Missione 6), il governo s’è rifugiato in corner.

E’ avvenuto anche sull’affaire D’Urso, il soggetto attuatore dell’emergenza Covid, uscito indenne dal dibattito di giovedì scorso, nonostante le accuse (di broglio) rivolte ai membri del parlamento. Musumeci se n’è uscito con una reprimenda pubblica, e un provvedimento disciplinare non meglio specificato, con la raccomandazione a non utilizzare più i social. Mentre la mozione che impegnava il governatore a revocargli l’incarico, e che stata al centro di una frattura con Forza Italia, è stata cestinata in partenza perché, secondo lo stesso presidente, “avrebbe drastiche conseguenze sulla celere prosecuzione dell’attività affidata e, quindi, sulla concreta ultimazione di decine di cantieri nelle strutture sanitarie dell’Isola”. Una boutade. L’ennesimo schiaffo a Sala d’Ercole, che sul tema aveva espresso un’indicazione a scrutinio palese, senza servirsi del voto segreto. Tale era la rabbia.

Musumeci è come un pugile suonato che per un motivo o per un altro si aggrappa alle corde e trova sempre il modo di sopravvivere agli eventi. Succederà anche di fronte alla mozione di sfiducia di De Luca e di Sicilia Vera, sebbene il Movimento 5 Stelle già si sia dichiarato pronto a votarla: “Già in passato – ha detto il capogruppo Di Paola – il M5s ha promosso e votato un atto del genere contro il presidente della Regione, che, a più riprese e praticamente in tutti i settori, ha confermato la sua inadeguatezza a rimanere a palazzo d’Orleans. Prima va a casa Musumeci, prima i siciliani cominceranno a respirare”. Meno severo il Pd: “Il Partito Democratico – ha scritto Barbagallo in una nota – vuole battere Musumeci sul campo, in campagna elettorale e senza manovre di palazzo. Speriamo che si ricandidi per sconfiggerlo con i voti dei siciliani. Detto questo, a scanso di equivoci, quando e se una mozione di sfiducia dovesse approdare in Aula certamente il Pd voterà a favore”.

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