Fossi uno dei sindaci di quel sud-est siciliano compreso tra Siracusa e Ragusa direi «basta, fermatevi». Ma i sindaci, è normale, ragionano in modalità Pro Loco. Per cui poco importa di quisquilie a latere, estetica televisiva, forma del racconto, metanarrativa e metateatro, di che parliamo?, di aria fritta? Anche stavolta, d’altronde, c’è un bel gruzzolo da spartirsi: 9.016.000 telespettatori e il 38,4% di share dalle 21,40 alle 23,52, che in termini di riscontro turistico, fatta la tara delle eventuali restrizioni Covid, fanno, passami un attimo la calcolatrice, tot presenze negli alberghi, altre tot nei b&b e ancora case vacanze, lidi balneari, ristoranti, trattorie, pizzerie, furgoncini di street food senza scordare musei, chiese, feste devozionali del santo patrono etc. etc. Tanti auguri, alla faccia dei metalinguaggi.
Tornando proprio all’aria fritta, invece, non c’è di che rallegrarsi per l’ultimo e pare definitivo capitolo de «Il commissario Montalbano» («Il metodo Catalanotti») che su Rai1 ha raccolto tutte quelle teste (le chiamano così, quelli della tv, sappiatelo). Un pasticcio. E dando per buone le intenzioni, quel che ne è venuto fuori sempre pasticcio resta.
Il gioco del teatro (qui c’è in ballo una compagnia amatoriale “manovrata” da un bizzarro puparo con la fissa del palcoscenico e della psichiatria, Catalanotti, appunto, che adotta training invasivi e sadici per far calare gli attori nei ruoli) finisce in farsa. I dilettanti scelti a bella posta con tribolazioni psicologiche ci vuole un fiato perché si trasformino da casi quasi clinici in macchiette. Pazzi, tutti, quelli che sfilano in commissariato davanti a Montalbano che ha pirandellianamente “occhi sbarrati dallo spavento” così come Augello e Fazio. Ma l’operazione di metateatro di cui essendo uomo di palcoscenico e di lettere Camilleri sapeva funambolicamente reggere le fila, finisce lì, sulla carta, ché sullo schermo ci sono cartonati, caricature, figurette.
I protagonisti però non sono da meno. E qui si rimpiange la mano direttoriale di Alberto Sironi come il pane a tavola quando non ce n’è perché qualcuno s’è scordato a comprarlo. Un dialetto caricato a palla, compiaciutamente accentato (quasi che la compagnia amatoriale fossero loro), tanto che hai il timore che, un passo oltre, si catarelizzino tutti. Gag e carrettelle (hai l’impressione che qualcosa sia addirittura fuori copione) con generosità: scena clou, quella degli impacciati tentennamenti d’orientamento di Montalbano e del suo vice Augello (di qua, no di là, di su, no di giù). E via di questo passo.
Ci sarebbe poi lo snodo della storia di Montalbano con l’eterna fidanzata Livia che, se non dispiacesse per la fine di una relazione di così lunga durata (fate voi: 14 serie tv in 23 anni), potrebbe fare il paio con le multiple avventurette extraconiugali di Mimì Augello (nomen omen). Come si innamora della giovane nuova arrivata (una collega della Scientifica) il maturo commissario? Ovviamente come un qualsiasi diciassettenne. Il che comporta: incrocio di primi piani sui rispettivi sguardi al primo incontro (abbiamo-capito-tutto); ralenti sulla bocca di lei in trattoria mentre si pulisce le labbra col tovagliolo; altro ralenti sul viso maschio-alfa di lui; lui che assaggia, quando lei va via, il dessert dal suo stesso cucchiaino; posa plastica con drappeggio (da fascia protetta) da sfinimento da primo sesso sul divano di una casa sotto sequestro giudiziario; fervorino autodecisionista di lei (è sempre l’8 marzo anche se per puro caso) che raggela senza troppe chiacchiere l’illusione di una nuova storia da parte di lui; fervorino che finisce sotto le rotaie di un intercity (insieme alle belle intenzioni 8 marzo) alla stazione di Siracusa dalla quale lei dovrebbe partire ma… lei sale sul convoglio (da una porta) ne discende subito (dall’altra porta) prima che il treno parta; finale con i due che si abbracciano sullo sfondo dei vagoni in velocità. Manco fosse un polpettone sentimentale primi anni ’70.
L’unica scena degna di menzione è la telefonata d’addio – più silenzi che parole – tra Montalbano e Livia. Nell’assenza di dialogo, nelle pause, nei lenti tentennamenti e nella decisione finale (è lei che tronca) giganteggia Sonia Bergamasco. C’è una lunga sequenza (quasi inaudita in quel contesto caciarone) in cui recita, muta, solo di spalle. Leggermente incurvate, sono (sia detto il più seriamente possibile) un gran momento d’arte drammatica.