Pubblichiamo l’articolo che, sul Foglio di sabato, Giuseppe Sottile ha dedicato al Genio di Palermo. L’ottava statua dedicata al nume tutelare della città è stata realizzata da Domenico Pellegrino, artista di fama internazionale, e collocata al centro dell’Orto Botanico. L’opera, nata da un’idea e da un progetto culturale del professore Paolo Inglese, direttore del sistema museale, appartiene all’Università. Alla quale Pellegrino ha ceduto tutti i diritti.
La notizia è racchiusa in un trafiletto a due colonne in cronaca: Domenico Pellegrino, uno scultore di fantastico ingegno, sta per elevare, nella città “regia e conventuale” del Gattopardo, un altro monumento al Genio di Palermo. L’ottavo. Non bastavano sette statue già disseminate tra piazza della Rivoluzione e Villa Giulia, tra l’ingresso del Porto e Palazzo Pretorio, fino alla Fontana del Garraffo, dietro piazza della Vucciria. L’infelicissima Palermo ha ancora bisogno di coltivare l’illusione che prima o poi arrivi un dio capace di riportare la città – con i suoi palazzi, le sue strade, le sue chiese – allo splendore del secolo d’oro, quando i normanni regalarono al mondo non solo i mosaici della Cappella Palatina ma anche il Castello della Zisa, costruito al centro di un parco che si estendeva dalle montagne della Conca d’Oro fino al Palazzo Reale, con il semplice scopo di regalare al re alla sua corte un momento di frescura nei giorni selvaggi dello scirocco. Gli architetti arabi lo avevano indirizzato verso nord ovest, per cogliere ogni filo di brezza marina e inumidirlo con un gioco di acque e vapori. Lo chiamarono Al Aziz, lo Splendido, e lo circondarono con un giardino lussureggiante: un Genoardo, che per certe ascendenze islamiche era i il giardino delle delizie ed equivaleva al “paradiso della terra”.
“Ma quale paradiso in terra, questa città è diventata la porta dell’inferno”, taglia ruvido e corto il professore Aristide Carabillò, emerito di storia dell’arte. “Per questo si inventano il Genio Salvatore. Ma le illusioni si pagano care, molto care”. Il Genio di Palermo è il nume tutelare della città, un genius loci, complementare a Santa Rosalia che resta sempre e comunque la padrona. E’ raffigurato come un uomo maturo dalla barba divisa, incoronato e abbracciato ad un serpente che si nutre al suo petto.
I monumenti, manco a dirlo, gli sono stati elevati negli anni più neri e sventurati. Quello del Garraffo, il più vecchio, fu realizzato da Pietro di Bonitate alla fine del quindicesimo secolo, proprio negli anni in cui Ferdinando Secondo il Cattolico insediava a Palazzo Steri, con la benedizione di papa Innocenzo VIII, il Tribunale dell’Inquisizione. Un flagello.
A quel tempo il Genio era una sorta di angelo della salvezza: feste, forche, farina e Genio. Un gioco consolatorio, spietato. Un truce romanzo gotico. “Però stiamo attenti: anche le luminarie di Santa Rosalia, con tutto il rispetto per la Santuzza, hanno finito spesso per abbagliare e stordire”, puntualizza Carabillò. E così dicendo ricorda la malasorte che il 14 luglio del 1933, festa della Patrona, prese in contropiede Raymond Roussel commediografo e profeta dei surrealisti; uno di quei poeti, per dirla col sarcasmo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “che la Francia sforna e dimentica ogni settimana”.
Era arrivato a Palermo cercando ebbrezze africane ed era ospite del Grand Hotel des Palmes. Viveva chiuso nella camera 224, il suo “Locus solus”, e preferiva stare al buio, in pieno mezzogiorno, perché – annota Giovanni Macchia, pietoso recensore delle sue opere – “gli accecanti raggi che sprizzavano dalla sua penna non venissero attenuati dalla luce del sole”. Ma la sera del Festino, il surrealista Raymond Roussel, credendo di andare incontro a una esotica macchina dei sogni, si lasciò ammaliare dalle luminarie dedicate alla Santa e si avventurò tra la folla della Marina, rapito dagli sfavillanti giochi pirotecnici, dai lampi e dalle vampe che si stagliavano al cielo da Sant’Erasmo a Castello a Mare, da San Giorgio dei Pisani a San Giacomo dei Genovesi, e si irradiavano fino a via Maqueda, la strada dritta disegnata dagli spagnoli per fermare con un solo cannone ogni rivolta popolare. Chissà quali fantasmi si agitarono nella sua mente. Sta di fatto che in quella stessa notte si lasciò andare a un uso smodato dei barbiturici e il giorno dopo fu trovato privo di vita, nudo, su un materasso steso a terra. I fuochi fatui del Festino lo avevano stordito e poi straziato. La sua morte rimane tuttora un mistero esistenziale. Sul quale Leonardo Sciascia ha scritto un libro minuscolo, gelido e affilato come il bisturi di un’autopsia: “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”.
Né luminarie né fuochi d’artificio, né luci abbaglianti, dunque. “Palermo – insiste Carabillò – ha bisogno, necessità e urgenza di scoprire un Genio vero, magari con le elezioni dell’anno prossimo. Un uomo che apra le porte di un Rinascimento. Un Genio della Creazione e della Resurrezione. Un Genio intelligente, operoso, armato di scienza e conoscenza, battagliero e coraggioso, che abbia il culto del fare e del donare, che sappia ascoltare e dialogare, e che faccia della sua mente il luogo del possibile e non del categorico, della tolleranza e non della tracotanza”. Un demone o un angelo capace di trasformare, come il Lucifero di John Milton, “il paradiso in un inferno e l’inferno in un paradiso”; un fantasista tenace, caparbio e orgoglioso in grado di riversare, anche sulle cose più semplici e banali, una balsamica rapsodia di luce e di porpora. “Fate un giro nel centro storico, il degrado vi apparirà tenace e irreversibile”, invita Carabillò. Sì, ma in quale luogo vicino o remoto, in quale terra promessa, si nasconde il Genio che Palermo cerca con tanta trepidazione ormai da tanti, tantissimi anni?
In un libro ancora da completare, il professore Carabillò ha messo insieme una coroncina di sogni, di fantasie, di immaginazioni, di aspirazioni e desideri, coinvolgendo i grandi della letteratura. Sogni fatti a Palermo e mai raccontati.
L’uomo che per primo riuscì a cogliere l’idea di un Genio votato alla Creazione fu un cieco che per tutta la vita aveva cercato l’infinito e l’eternità. Era Jorge Luis Borges, grande scrittore argentino, autore di “Aleph” e “Finzioni”, teologo laico, mistico e miscredente, faro della letteratura sudamericana del Novecento. Nel 1984, quando arriva a Palermo per ritirare il premio della “Rosa d’oro”, racconta di avere sognato – “in una notte senza tempo, labirintica e forse inesistente”, precisa Carabillò – una Biblioteca di Babele che, nel teatro delle evanescenze, gli sembrò Palermo. Ma non la Palermo di Buenos Aires, il quartiere “di chitarra e coltello” dove lui era nato; ma la Palermo di Sicilia che gli amici e anche Maria Kodama, sua moglie e allieva, gli descrivono come la città dove la storia ha assaporato tutte le delizie dell’esistenza.
Racconta – ma i testimoni si sono dispersi nella polvere delle stelle – di avere udito, tra le bizzarrie del sogno, il Do Maggiore che Franz Joseph Haydn ha inserito come una foglia d’argento ne “La Creazione”, la sinfonia scritta proprio per esaltare e magnificare il Fiat Lux, il momento in cui il soffio di Dio dipinge il sole, la terra, il cielo, il mare e “la sublime normalità dell’universo”. Ma racconta anche che nel momento in cui il sogno si adagiava sulle celestiali armonie di Haydn, il direttore d’orchestra – non si sa come e non si sa perché, i sogni sono fatti così – ha di colpo fermato la musica, ha bloccato coro e violini ed ha assegnato a Palermo le stesse parole e lo stesso destino che il Talmud ha dedicato alla nascita di Gerusalemme: “Dio creò la bellezza e la divise in dieci parti. Nove parti le assegnò a Palermo e una al resto del mondo. Poi prese il dolore e divise anche quello in dieci parti: nove le assegnò a Palermo e una al resto del mondo”.
Nessuno, neanche il testimone disperso nella polvere di stelle, saprà mai perché Borges abbia voluto rappresentare Palermo come il luogo geometrico della Biblioteca di Babele. Forse per riportare a una dimensione di follia e smarrimento tutti gli imbonitori, gli impostori, i funamboli e i giocolieri che negli anni si sono attaccati al suo petto con la stessa avidità del serpente che, nel monumento di piazza Rivoluzione, si abbevera al sangue del Re Nudo. Imbroglioni e guitti come Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, nato a Palermo l’8 giugno del 1793, che stregò principi e regine d’Europa, che fu cialtrone e illuminista, filosofo e ciarlatano, ribaldo e affabulatore, massone e alchimista, rosacrociano e spiritualista. Un débauché de esprit: così l’avrebbe bollato Voltaire; a differenza di Goethe che invece ebbe la sfrontatezza di venire in Sicilia e di ingrottarsi tra i vicoli di Ballarò pur di incontrare i parenti dello stregone e carpirne i segreti che, da Parigi a Londra, ne ingigantivano il fascino. O come Giuseppe Vella, cappellano gerosolimitano, sbarcato a Palermo il 13 maggio 1780, proveniente da Malta, e divenuto abate in virtù di una menzogna saracena propinata come un afrodisiaco a nobili, prelati ed eruditi di un fantomatico Consiglio d’Egitto. Un altro débauché de esprit. Un altro ingegno torbido, opaco e mistificatorio che la Babele sognata da Borges ha allevato nel suo ventre.
Il Genio della Creazione invece è portatore di luce. Fiat Lux. “Lo chiameremo Re Maggiore, come la tonalità inventata da Haydn per celebrare il miracolo della vita”, suggerisce Carabillò. E con quel nome ci ricorderemo di Re Ruggero e di tutti i re normanni che, nel loro secolo d’oro, inventarono l’impero della bellezza e lo fissarono nei mosaici della Cappella Palatina, nel duomo di Monreale e nelle mani benedicenti del Cristo Pantocratore.
Ma come chiameremo, poi, il Genio della Resurrezione che Palermo cerca ogni giorno, con amore e batticuore, per scrollarsi i suoi dolori, per non rimasticare lutti e tragedie, per non piangersi più addosso, per non restare prigioniera dei predicati molesti che l’assediano e la stritolano?
Forse lo ha intravisto nottetempo, in un sogno mai raccontato, Gesualdo Bufalino, il poeta che con “Argo il cieco” voleva curare una vita infelice scrivendo un libro felice. Nell’estate del 1984, stesso anno di Borges, arrivò da Comiso a Palermo, dove soggiornò per una settimana dividendosi tra la casa di Elvira Sellerio, la sirena letteraria che lo aveva attirato col suo canto nel vortice dei libri, e quella dell’amico Leonardo Sciascia, lo scrittore che lo aveva artigliato e portato con sé nella sublime arte di “battezzare le cose con la parola”
La notte del 4 settembre la sua nostalgia malinconica per Palermo, e per le sofferenze vissute in questa città al tempo della guerra, si tramutò improvvisamente in un sogno. Un sogno estasiante, ai limiti dello stordimento. Al posto del sanatorio della Rocca – che fu rifugio contro la tubercolosi e centro narrativo della “Diceria dell’untore” – le fantasie della notte avevano mostrato a Bufalino una città barocca, un’architettura di preziosa favola che comprendeva le più belle chiese di Modica, di Scicli, di Noto, di Ibla. Non si sa come e non si sa perché – i sogni sono fatti così – dentro uno dei palazzi “con i muri di sasso, lampanti come verbi di Dio” appare una donna di sovrana bellezza. Se Marcel Proust fosse entrato per un sortilegio in quel sogno avrebbe scritto che “la luce fluttuava nei suoi occhi come un fiore d’acqua”. Diafana e sensuale, angelica e carnale, quella donna incedeva con tirannica austerità tra il corteggiamento di dieci, cento, mille poeti stregati dalla luna come Lucio Piccolo di Calanovella: era Nostra Signora della Felicità e non aveva altro scopo se non quello di spiegare al mondo il miracolo del sanatorio trasformato in un capriccio barocco: “Ciò che per un bruco è la fine del mondo, per il resto del mondo è una farfalla”.
Peccato che un’alba assassina abbia spezzato il sogno di Bufalino. Un sogno fatto a Palermo. Resta però la farfalla nata da un sanatorio e dal grumo di dolore racchiuso in quelle camerate, spiaccicato tra le pareti screpolate dei corridoi, attaccato alle lenzuola di lettini fragili e traballanti.
Come chiameremo il Genio della Resurrezione che Palermo insegue e invoca da anni, da tantissimi anni? “Lo chiameremo Dieudoné, donato da Dio”, anticipa Carabillò. E quel nome ci riporterà all’orgoglio di epoche lontane, ai re di Francia, ai fasti di Versailles, a Notre Dame de Paris, alla Ville Lumiere, alla Comedie Humaine, agli illuministi, a Flaubert, a Stendhal, al salotto di Madame du Deffand, a Gallimard, al respiro cupido e ardente delle grandi città e della grande cultura europea.
Fly me to the Moon.