Silvio Berlusconi guarda verso la barca piena di ragazze che ballano in costume da bagno, e le guarda con struggimento e malinconia, con il desiderio di andare su quella barca e la consapevolezza di non poterlo fare: può solo allungare il collo e sentire la musica in lontananza, cullarsi con quella, aspettare domani, dopodomani, fra un mese, con il sorriso di chi ha ancora qualcosa da attendere. Ecco il nucleo sentimentale del film di Paolo Sorrentino. Non la politica, ma l’umanità. Il desiderio, la paura, l’attesa. Ecco loro, noi, tutti, Gatsby che tende le braccia verso la luce verde oltre la baia, gli invitati e gli imbucati alle sue feste, come falene verso la luce, Riccardo Scamarcio che aspetta di incontrare Silvio Berlusconi nascosto dietro una tenda e Berlusconi non arriva mai e non arriverà e a lui “scappa da pisciare”. Le ragazze camminano sui tacchi alti lungo i Fori Imperiali per andare alla festa, a loro non importa niente di vedere Roma di notte (e che non la conosco Roma?), perché vogliono soltanto incontrare lui, aspettano lui, come si aspetta un sogno, una rockstar, il futuro.
Tutti vogliono qualcosa che non hanno, non hanno ancora o non hanno più, tutti hanno un desiderio inappagato. Ed è nei desideri inappagati che noi vediamo riflessa la condizione umana: c’è qualcuno di noi che non desidera qualcosa o qualcuno che non ha? Quello che ho perso quello che non avrò mai, quello che cerco ogni giorno di ottenere, quello che vorrei anche solo per un attimo, quello che mi fa sempre sentire insoddisfatto. Dalla soddisfazione, dall’appagamento, non può nascere un’opera d’arte, una poesia meravigliosa, un grande film. Dal desiderio e dalla paura, sì.
Paolo Sorrentino è riuscito a raccontare, anzi a mostrare l’enormità di questo sentimento: per quanto il desiderio sia misero, e infatti qualcuno desidera i soldi per pagare un debito, e un altro desidera fare le scarpe a Silvio Berlusconi e desidera andare a letto con una ragazza e la ragazza sa che se succederà lei perderà tutta la preziosità di quel desiderio, e un ex ministro gioca a tennis dentro un appartamento vuoto, e Tamara desidera sedersi a tavola accanto a Silvio Berlusconi, il desiderio ha sempre un’immensità perché contiene tutta la speranza e la disperazione degli esseri umani.
Anche nell’ambizione e nella costruzione o aspirazione a un potere, nell’invidia per il potere c’è il sentimento, e Sorrentino è riuscito a offrire a noi che guardiamo quel sentimento, che entra, spia, disturba, fa divertire, infastidisce, stanca, esalta, inferocisce oppure commuove. Non si resta intatti, con questo film, che è un unico film diviso in due: ci si arrabbia tantissimo, si rifiuta il sentimento, lo si respinge oppure lo si accoglie, e un giorno dopo, due giorni dopo, tre giorni dopo, e anni dopo, ancora si penserà allo sguardo di Toni Servillo verso la barca su cui non può salire. O al culo di Miss Universo che esce dall’acqua, in Youth. All’uomo enorme nella piscina, idea di Maradona, idea di decadenza ma con divertimento. E’ successo con La grande bellezza e con gli altri film che non svaniscono un minuto dopo, ma crescono e si muovono dentro. Non si esce mai soddisfatti da un film di Paolo Sorrentino, ma la soddisfazione si prova forse uscendo da un ristorante, dopo una magnifica carbonara, dopo una bistecca con patate, dopo qualcosa di divertente: è bello sentirsi soddisfatti, ma uscire dal cinema sentendosi mossi, sentendo ombra e luce che si muovono è quello di cui parla Vladimir Nabokov quando pretende che un libro dia un brivido alla schiena, un turbamento. Qualcosa che sempre precede il pensiero. A me è successo di uscire dopo aver visto questi due film, questo unico film, alla luce della sera, e di sentirmi frastornata. Di non riuscire a dire una cosa precisa, ma avendo addosso qualcosa di esatto e sfuggente, qualcosa che si muove. Più passano i giorni più riesco a capire che cosa ho pensato, che cosa è vedere gli esseri umani raccontati attraverso immagini solenni, in cui anche la ragazza che fa la capriola in aria è importantissima e degna di essere raccontata, o la ragazza che guida il gommone, ed è maestosa come è maestosa Veronica Lario che legge un libro Adelphi e pensa al disfacimento del suo grande amore, e ormai non sorride più, si annoia e lo annoia.
“Che cosa è stato di quella ragazza di Bologna che sorrideva sempre?”, le chiede Silvio, Toni Servillo, durante la loro dolorosa, intima, però universale, verissima resa dei conti. “Niente, non è rimasto niente”, dice Veronica, “sono invecchiata male”. Succede a tutti noi o è possibile anche non invecchiare male?
E c’è per Veronica il dolore di quello che ha perso e di quello che non ha avuto: la bellezza sfolgorante, l’adorazione dell’uomo che ha amato tanto, e quel continuo desiderio inappagato. “Tutto non è abbastanza”, e tutto quello che adesso ha Veronica non è abbastanza e anzi non è più niente, quella casa lussuosa in Sardegna, con la pecora spaventata sulla soglia, è la casa di due vecchi soli che hanno paura di diventare ancora più vecchi e ancora più soli. Ma questo disperato bisogno di felicità che hanno gli esseri umani non finirà mai, e allora Berlusconi vuole una grande festa, vuole tornare al governo, e Veronica vuole fare il giro dei templi in Cambogia e vuole che suo marito torni a essere l’uomo di cui si era innamorata, e Riccardo Scamarcio vuole andarsene dalla Puglia, e Kasia Smutniak vuole essere la preferita, e qualcuna vuole solo farsi i selfie nel bagno di Silvio Berlusconi e un giro sulla giostra. Mike Bongiorno vuole ritrovare il suo amico Silvio, e anche quello è un desiderio inappagato.
Questa è la realtà. Ed è la realtà, anche l’umiliazione della realtà, raccontata attraverso il più grande, discusso, odiato, amato personaggio italiano degli ultimi vent’anni, l’uomo che ha conquistato e avuto in mano il paese, e che nel film fa le condoglianze a una pecora perché è morta sua cognata. E che telefona di sera a una signora dopo aver trovato il numero sulle Pagine Bianche per venderle un appartamento, per venderle il suo sogno, per provare a se stesso che è ancora capace di farlo, e la signora seduta in cucina da sola gli chiede: come fa a sapere queste cose di me?, e lui in quel momento è felice, acceso, di nuovo dentro se stesso perché ha la speranza.
Ci vuole una grande ambizione per decidere di raccontare la paura della vecchiaia e della morte (anche le ragazze di Scamarcio hanno questa paura, anche Kasia Smutniak che dice: “E’ dura la vita quando non sai fare niente”), attraverso l’uomo più detestato, processato, adorato, di cui ci siamo più vergognati, che ci ha fatto imbestialire, divertire, illudere, deludere, indignare, quello a cui abbiamo dato la colpa di tutte le nostre debolezze, di tutto il nostro peggio, di qualunque sfacelo, quello che abbiamo invidiato, disprezzato, ignorato, rincorso, spiato e che, come gli dice Veronica nel film, non ha fatto niente di quello che avrebbe potuto fare. Ci vuole una grandezza per mostrare il sentimento e renderlo universale attraverso le ragazze che ballano in piscina e guardano verso la villa di Berlusconi (e dicono: “Comunque è più alto di come sembra”) e leccano il cono gelato, e anche per mostrare la verità di un grande amore dopo tanti anni. Si sente, anche quando si detesta questo modo di raccontare, di stare davanti a una grandezza. Che si stacca completamente dalla necessità di individuare i personaggi, di dare i nomi a tutti: ma quello è Sandro Bondi oppure Giulio Tremonti o quello con le camicie assurde, Formigoni? E Cupa è Daniela Santanché? Non importa chi siano, non importa l’album delle figurine, perché non è un documentario, non è un fumetto, non è un articolo di giornale, e questi personaggi sono importantissimi, ma sono qualcos’altro, di reale e surreale insieme, qualcosa che si muove verso un punto in cui tutti i contrari si incontrano. Come il Gran Visir vestito di bianco che vigila e caccia via gli scocciatori e i traditori e dice: “Io scrivo le biografie, e oggi scrivo la tua” all’ex ministro traditore. E’ magnifico potersi staccare dalla realtà e restare però dentro la realtà, andarle incontro, e sentire l’esattezza di un sentimento.
E quando passa un rinoceronte per strada, quella è la surrealtà della condizione umana, una follia che ci riguarda, un divertimento che è nostro e che non vogliamo abbandonare neanche quando pensiamo intensamente al fallimento, alla morte. Quando un camion vola, quando i fenicotteri dormono su un terrazzo, quando Silvio fa costruire per Veronica un tempio cambogiano e lei ci si siede dentro, tutta immusonita. Il divertimento e lo strazio, il desiderio e la paura, la solennità e il bisogno di pisciare, la capriola in aria e Fabio Concato che canta “Ogni tanto nasce un fiore, lo confondo col tuo amore, com’è bella la natura com’è bello il tuo cuore”. La realtà è esatta, ma allo stesso tempo è vertiginosa, infida, poetica, infinita e divertente. Non c’è soddisfazione, mai, c’è una grande malinconia, c’è il camminare stanchi verso un orizzonte che scompare sempre, o fermarsi a contemplarlo e sentirsi infelici, desiderare essere amati e avere paura. Non è qualcosa su cui si può ragionare, è la condizione umana.
Anche la pecora ha paura, dell’aria condizionata, e Berlusconi ha paura di morire, di essere vecchio, di non tornare più al governo, di avere perso Veronica. “Hai l’alito di mio nonno”, gli dice una ragazza, e lui le sorride e le risponde che non si offende mai, ma questa verità sulla vecchiaia, sulla distanza, gli si conficca dentro, e lui la ripete guardando l’orizzonte, la luce verde, la sua giovinezza e la sua potenza così lontane: non c’è pace per chi non ha mai pace e l’orizzonte vorrebbe afferrarlo, comprarlo, possederlo.
“Non si dovrebbe mai mettere da parte soldi, sentimenti e pensieri. Perché dopo non si usano più”, ha scritto Natalia Ginzburg e ripete Silvio Berlusconi, puntualizzando che quella è l’unica scrittrice comunista che gli andasse a genio. Non si devono mai mettere da parte i sentimenti, nasconderli dentro altre intenzioni, trasformarli in qualcosa di diverso, di più piccolo. Bisogna scovarli dentro gli esseri umani, dentro la politica, dentro una festa in piscina strafatti di droga, dentro la verità di un ragazzo di provincia che vuole andarsene dalla provincia e non sa fare niente. Scovarli, averne compassione, considerarli importanti. L’arte sa fare questo: non renderci migliori o peggiori, non essere utile, edificante o farci contenti e soddisfatti, ma sa dirci chi siamo, e quanto siamo patetici e grandissimi mentre desideriamo salire su quella barca.