Quando Nello Musumeci era il presidente della Regione siciliana, giocava a fare il ministro. Clamorosa, e in un certo senso irripetibile, fu la scelta di emanare un’ordinanza per ricollocare altrove – “fuori dal territorio della Regione siciliana” – i migranti presenti nell’hotspot di Lampedusa, con la scusa di preservare l’isola delle Pelagie da un’altra invasione: quella del Covid. Peccato che le competenze non fossero sue, ma del ministro dell’Interno (tanto che il Tar di Palermo sospese immediatamente il provvedimento). Che l’ex governatore fosse una “faccia di bronzo” si era capito all’epoca, ma oggi se ne ha la conferma. Da Ministro della Protezione civile, Musumeci è riuscito in un’impresa titanica: distrarre l’opinione pubblica e le opposizioni dall’impalpabilità del governo Schifani e far accendere i riflettori su di sé.

Tutto a causa del rimprovero nei confronti delle Regioni, pronunciato un paio di giorni fa. Il tema, ovviamente, era la siccità: “Abbiamo messo a disposizione 1,2 miliardi, 400 milioni per i progetti già in essere e 800 per nuove iniziative. Il ministro Fitto mi dice che solo il 30% risulta essere stato utilizzato. Mi auguro che il dato non sia aggiornato o che ci sia un arretrato sul quale le regioni sapranno lavorare con grande impegno per recuperare il tempo perduto”. Apriti cielo. In pochi minuti Musumeci ha ricordato a tutti di essere stato il presidente di una grande regione, quella che soffre più di tutte i morsi della siccità. Una regione, la Sicilia, dove si continua a non fare abbastanza per contrastare l’emergenza, e dove in passato – nonostante il trend di estati calde e afose, di invasi deficitari, di condutture colabrodo, di dissalatori inattivi – s’è fatto ancora meno.

A rinfacciare a Musumeci il fallimento del suo operato è stato Cateno De Luca, suo acerrimo rivale (da sindaco di Messina) durante la scorsa legislatura. Lo definisce “novello Don Chisciotte” e si addentra sul non-fatto: “E’ stato il governo Musumeci, quando lui era presidente della Regione, ad incassare una bocciatura da parte del governo nazionale dei progetti siciliani presentati per il PNRR: 31 progetti su 31 bocciati – ricorda il leader di Sud chiama Nord -. Un record assoluto per una perdita complessiva di 360 milioni di euro”. E aggiunge: “Ricordiamo pure che la gestione Musumeci non è riuscita ad affidare nemmeno una gestione d’ambito sui servizi idrici, nonostante abbia commissariato le ATI, prendendo in giro tutti con un disegno di legge inattuabile e, infatti, mai approvato. La mancanza di gestori ha provocato la perdita dei finanziamenti PNRR, con oltre 700 milioni per l’approvvigionamento idrico per le civili abitazioni che sono andati a beneficio di altre gestioni regionali”. In totale, fa più di un miliardo buttato. “Insomma, il bue che dice cornuto all’asino”.

Anche il segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo, ricordando le medesime circostanze, sottolinea che “Musumeci quando era governatore – dal 2017 al 2022 – ha mai messo mano ad una vera riforma dei consorzi di bonifica a cui è affidata in buona parte la programmazione e l’attuazione di questi progetti”. Inoltre, “sui ritardi negli interventi per ridurre le perdite nella rete idrica, che in Sicilia tocca il 50%, bastava che leggesse la relazione dei Corte dei Conti sulla gestione delle misure PNRR volte a contenere la perdita nelle reti di distribuzione: si tratta di criticità ben note anche durante il suo mandato in cui è mancata una programmazione adeguata”. Questa vicenda conferma il sospetto, e cioè che l’ex Pizzo Magico “da ministro si erge ad amministratore duro e puro, predicando bene ma razzolando malissimo”. Ieri è arrivata persino la staffilata di Schifani: “Abbiamo pianificato e avviato un vasto programma di interventi per rendere più efficiente il servizio idrico, opere che la Sicilia attende da troppo tempo e che incomprensibilmente non sono state avviate da chi ci ha preceduto”.

Ma non è solo la siccità. Musumeci s’è rivelato deficitario pure su altri fronti: in primis gli incendi. Non ha fatto nulla per rafforzare la campagna di prevenzione, né per migliorare le condizioni dei forestali (che hanno atteso il suo acerrimo rivale, Luca Sammartino, per assistere a un aumento delle giornate lavorative). Ha acquistato 88 droni, per 230 mila euro, che non potevano volare controvento o con temperature superiori a 40°. Ci ha messo più di tre anni per concludere un appalto utile alla fornitura di 119 autobotti. Eppure, oggi, si atteggia a professorone: di fronte all’inefficienza progettuale dei Comuni, che lo scorso gennaio non avevano quantificato le perdite per i roghi subiti la scorsa estate, minacciò di far saltare la dichiarazione dello stato d’emergenza e 6 milioni di ristori. Evento da cui nacquero i primi attriti con Schifani. Ad aprile un altro vuoto di memoria: “Abbiamo chiesto alle Regioni, alle quali la legge 353 del 2000 affida il compito della lotta agli incendi, non solo di ottimizzare tutte le risorse umane ed economiche di cui dispongono, ma anche di promuovere attraverso i media una diffusa campagna di sensibilizzazione tra le popolazioni. E diventa sempre più essenziale ricorrere all’uso di strumenti tecnologici per intercettare in tempo utile i focolai di incendio”.

Caspita. Aveva avuto tutto il tempo per farlo, quaggiù in Sicilia. Gli sarebbe bastata la stessa risolutezza mostrata nei salotti romani. E invece no. Il Ministro può contare, d’altronde, sull’impunità garantita ai meloniani d’alto rango. Impunità a tutti i livelli, anche di fronte alle cavolate. Non è il solo ovviamente: Ignazio La Russa, ad esempio, spara una cavolata a settimana e la fa franca. Pur essendo la seconda carica dello Stato. Di fronte all’aggressione di un giornalista da parte dei fascisti di Casapound, anziché condannare il gesto, ha detto di non credere “che passasse lì per caso” e che Andrea Joly, della Stampa, avrebbe fatto meglio a dichiararsi. Tutti possono dire sciocchezze, e taluni più di altri. Come nel caso di Francesco Lollobrigida, quello che “da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi” e che “per fortuna quest’anno la siccità colpisce molto di più le regioni del Sud e in particolare la Sicilia”. Insomma, non è la gaffe di per sé a meritare un’abiura. Ma questo atteggiamento tipico del sapientone, un po’ furbo e un po’ arrogante, a lasciare di stucco.

Musumeci, oggi, è un forte sostenitore dell’Autonomia differenziata. Anzi, dopo l’approvazione della proposta di riforma Calderoli, ha sfidato il Sud, dicendo che “deve smetterla di continuare a piangere”. Peccato che alla vigilia delle Politiche – e quindi da governatore in carica – “asseriva che era giunto il momento che anche a Roma ci si accorgesse della Sicilia e delle sue necessità”. Lo ricorda in un recente intervento il capogruppo del M5s all’Ars, Antonio De Luca. “Musumeci troppo spesso dimentica, vedi questione incendi, che dovrebbe fare gli interessi dei siciliani e non quelli di Salvini che vuole l’autonomia differenziata per sventolare una bandierina sotto agli occhi del suo elettorato che lo sta abbandonando”.

Per altro Musumeci ha un primato davvero discutibile (e poco meritorio): cioè aver concesso la scena, durante il suo quinquennio da governatore, a due fra i peggiori assessori che la Sicilia ricordi. Il primo, che l’ha seguito a Roma nel ruolo di vicecapogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio, si chiama Manlio Messina. Un altro di quelli che a furia di iperboli e insulti, seminati sui social, s’è meritato la promozione a “megafono” del partito. E’ ovunque: nei talk, in tivù, sui giornali. Una volta, invece, era in via Notarbartolo, all’assessorato al Turismo, da cui ha tirato fuori due perle di indiscutibile clamore mediatico (Cannes e SeeSicily), una continua campagna di comunicazione, e due allievi che ne seguono le orme e i metodi: Francesco Scarpinato (ai Beni culturali) ed Elvira Amata (al Turismo e al Cinema). Altri due con l’impunità assicurata, diventati insostituibili nello scacchiere di Schifani.

L’altro assessore battezzato da Musumeci, che come Messina è “inseguito” dalla Corte dei Conti, si chiama Gaetano Armao. Oggi, nella sua stanza di Palazzo d’Orleans, mischia le sue doti d’avvocato d’affari e quelle di esperto sui fondi extraregionali. Ma per cinque lunghissimi anni è stato l’autore dei bilanci farlocchi che la magistratura contabile ha più volte stoppato e rinnegato. Sul rendiconto 2020, quello non parificato, che persino la Corte Costituzionale ha bollato come pessimo, è ancora aperta una vertenza. “Appare evidente – ha detto il procuratore generale della Corte dei Conti, Pino Zingale – che per un certo periodo la Regione ha speso somme delle quali non aveva la giuridica disponibilità, dovendole, invece, destinare al ripiano del disavanzo”. Avere cristallizzato “una fattispecie di mala gestio delle finanze regionali” ha affermato, “impone a questa Procura i necessari accertamenti al fine di verificare la sussistenza o meno di eventuali responsabilità amministrative connesse alla constatata artificiosa dilatazione del potere di spesa”.

La partita non è chiusa. Né per Armao né per Messina, le cui misure hanno provocato imbarazzi e buchi di bilancio. SeeSicily incide sulle casse della Regione per 20 milioni, che la Commissione europea ha ritenuto spese “non ammissibili” (facendo mancare la copertura finanziaria). Ecco, su questi due Musumeci aveva il compito di vigilare. Di indirizzarli, da un punto di vista politico e amministrativo. Di placarli, qualora necessario. Invece ha preferito fiancheggiarli, esaltarli e infine encomiarli. Se ne ricorda, onorevole presidente? O sarebbe meglio domandare al ministro?