Impossibile rifiutare un’occasione del genere: venerdì scorso, allo Sheraton di Catania, si è consumato il ritorno di Massimo Russo sulla scena politica regionale. Era una giornata di approfondimento sulla sanità digitale. Ma il nome dell’incontro – “A dieci anni dalla riforma” – era un chiaro riferimento a Russo e alla sua discesa in politica, al fianco di Raffaele Lombardo, come assessore regionale alla Salute. Non è stato il primo magistrato in politica, e ovviamente non sarà l’ultimo. Ma è quello che ha provato a confezionare una riforma di settore rimasta per molti versi inapplicata. E a mettere in atto, dall’interno, un processo di moralizzazione della cosa pubblica a cui qualche governatore, di tanto in tanto, si appella (ricordate Crocetta con Lucia Borsellino?). I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un terzo della giunta Musumeci ha ricevuto un avviso di garanzia, e i conflitti d’interesse ai piani alti non si contano. Comunque, non è questo il tema.
Russo, durante il suo intervento, ha fornito un assist a Lombardo, che aspetta tuttora di celebrare il suo terzo processo in cui è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. All’epoca, quando scelse un magistrato a capo della sanità, la reputazione del politico di Grammichele era già provata da un paio di arresti e altrettante assoluzioni: “Mi chiese di fare l’assessore alla Sanità e mi disse che se avessi detto di no, avrei perso ogni diritto di critica. Questa cosa mi colpì e accettai la sfida. Gestire la sanità inquinata dalla mafia, dopo Cuffaro, le indagini…”. E così il matrimonio si fece: durante il Lombardo quater, e l’ingresso del Pd nella strana coalizione di governo, Russo divenne addirittura vice-presidente della Regione.
Anche se la competizione elettorale è un’altra cosa e in una delle rare apparizioni elettorali, al comune di Palermo, la sua lista (con la collaborazione di un altro “lombardiano”, Gaetano Armao) prese il 3,2% e non elesse consiglieri. Un fallimento. Ma la presenza di Russo in platea, durante un evento para-politico, ha fatto riemergere le suggestioni. L’ex assessore, che con Lombardo ha logorato i rapporti durante l’ultima fase della legislatura, è tornato nei ranghi della magistratura, anche se qualcuno dei presenti allo Sheraton ipotizza un nuovo tuffo in politica fra tre anni, alle Regionali, magari come candidato presidente di un mega agglomerato di liste civiche (sul modello umbro). Una tentazione più che una possibilità.
Ma il “lombardismo” ha mille sfaccettature, tutte molto ben radicate in Sicilia. Una di esse si chiama Gaetano Armao: il personaggio in cerca d’autore, l’avvocato senza scrupoli, l’uomo d’affari che utilizza i palazzi del potere per il proprio tornaconto. Il politico buono per tutte le occasioni. Lo stesso che ha stregato il Cav., ad Arcore, indossando la maschera dell’indignazione e, che dopo aver ottenuto un seggio alla Camera per la compagna di vita Giusy Bartolozzi, ha deciso di mettere Forza Italia e ferro e fuoco, spostando il mirino sul prossimo obiettivo: talvolta Salvini, ora Toti. Un altro potente, che lo faccia accomodare sul carro e gli conceda un altro valzer. Di certo, non l’ultimo.
Armao è l’anello di congiunzione fra i governi Lombardo e Musumeci. Non solo per aver rivestito in entrambi gli esecutivi il ruolo di assessore all’Economia, e per aver assistito quasi inerme, imbambolato, alla truffa perpetrata da un losco avventuriero alle casse della Regione col famoso “censimento fantasma” da 110 milioni. Ma anche perché in questi anni avrebbe dovuto imparare qualcosa dai propri errori e da quelli altrui. Invece, ogni giorno che passa, la Regione affonda nei debiti, nei disavanzi, e scopre cose nuove che non hanno mai un lieto fine. Ma Armao, chissà come, riesce sempre a farla franca. Ha reso suddito Musumeci della sua tirannia, lo ha trascinato nei mille conflitti d’interesse senza che il governatore fosse in grado di muovere un’unghia. Anch’egli imbambolato. E più le questioni si aggrovigliano, più Musumeci lo difende.
Tra Armao e Lombardo resiste un rapporto di cordialità, come il discepolo che riconosce il maestro, anche se la politica non è il regno della gratitudine. Chi, all’ex governatore, deve ancora molto, è Antonio Scavone, il suo braccio destro, che da qualche mese si è insediato in via Trinacria, all’assessorato al Lavoro, e gestisce il traffico del reddito di cittadinanza. E di tutte le vertenze che riguardano lavoratori (pochi) e precari (la maggioranza). Il peso del “catanese” Lombardo, a Palermo, è ancora forte: ha in mano la commissione Esame dell’attività dell’Unione Europea, dove impera Domenico Compagnone, un suo adepto. Carmelo Pullara, che di recente è finito in alcune intercettazioni coi boss di Licata, e sui giornali per la sua personalissima opinione sull’abusivismo edilizio, è il capogruppo dei Popolari e Autonomisti, senza il quale non esiste alcuna maggioranza. Roberto Di Mauro, altro caporale d’acciaio, è vice-presidente dell’Assemblea Regionale.
I lombardiani, nel gruppo parlamentare centrista, contano pure su Marianna Caronia e soppiantano gli uomini di Saverio Romano, anche se la tentazione di chiedere un assessorato in più a Musumeci (i popolari ne hanno un paio, Cordaro e Lagalla) è venuta meno alla vigilia delle Europee, con il patto fra i due leader: l’ex fondatore del Movimento per l’Autonomia, tornato in pubblico per una convention politica, si pronunciò in favore del quasi-amico Saverio, col quale i rapporti in passato non erano stati dei migliori, ma che a questo giro elettorale a Catania rischiò di sfondare la barriera dei 15 mila voti.
A dimostrazione di quanto “pesi” Lombardo in questo governo, ecco un episodio: qualche settimana fa il capogruppo Carmelo Pullara decise di non firmare la riscrittura del collegato che la maggioranza rabberciata presentò dopo una lunga estate di trattative e aggiustamenti in campagna da Riccardo Savona (la legge fu poi privata delle norme di spesa). E a Musumeci tremarono i polsi. Con Lombardo (da cui in passato si sarebbe guadagnato l’epiteto di “lumacone”) non mantiene rapporti personali, ma sa benissimo che il suo gruppo è determinante per il buon esito della legislatura.
Di questa relazione a doppia mandata, d’altronde, la legislatura ha fornito più volte prova. Le dichiarazioni di Claudio Fava, che invitava Musumeci a non accettare assessori imposti da Lombardo; le nomine nella Sanità, che qualche mese addietro portarono Francesco Iudica, cognato dell’ex Mpa, a diventare direttore generale della Asp di Enna; e il sottogoverno, dove gli amici di Don Raffaè non si contano. Ce n’è uno, il presidente di Ast, Gaetano Tafuri, che si è autoproclamato amministratore unico di Ast Aeroservizi (la società che gestisce il mini-scalo di Lampedusa), di cui Ast è socio unico. E’ stato – dicono – un intervento per il bene dell’azienda, per evitare di incorrere in costi ulteriori. Guadagnerà 12 mila euro l’anno (bruscolini, se volete), ma la vera chicca è che il controllore e il controllato saranno la stessa cosa. O meglio, la stessa persona.
L’albero maestro di queste operazioni è sempre lui, Raffaele Lombardo. Un uomo che resta tangente alla politica, ma dal suo osservatorio non intende disperdere amici e sfera d’influenza. Con la quale non vuole mettere i bastoni fra le ruote a nessuno (potrebbe mandare sott’acqua Musumeci un giorno sì e l’altro pure, se soltanto lo volesse), ma mantenere inalterato il suo status. Avrebbe anche fatto un voto, Lombardo: non rimettere mai più piede in un palazzo del potere, in cambio di un esito positivo dei processi che lo riguardano. Non sarebbe poco.