Lo strappo nel cielo di carta

Odorosi di colonia e tabacco, la giacca appesa negligentemente sulle spalle, le mani incrociate dietro la schiena, passeggiano in formazioni larghe, ondeggianti, lungo il corso che prende il nome dalla divinità poliade, Atena figlia di Zeus, nata dalla sua testa, protettrice della città. Professori, insegnanti del liceo classico o dell’istituto magistrale, intellettuali di provincia, uomini liberi, per quanto possibile, maestri di pensiero critico, pensano di avere un posto nell’Italia da ricostruire, da liberare dalle rovine morali della guerra. Personalità eccentriche ma riconosciute, si danno convegno, nelle ore libere dagli impegni scolastici, nei caffè della via Atenea o di Porta di Ponte, dove conversano briosamente, gareggiando in erudizione e in facezie, consumando scioppetti e spongati.* Sovente tengono simposio nella bottega di un voluminoso libraio, l’unico della città, dove attendono la comparsa di un vanitoso o di un arricchito, che in poche mosse invischiano in ragionamenti senza uscita, in sofismi e paradossi vertiginosi, da cui il malcapitato, appena può, fugge via atterrito e vergognoso.

Molti hanno un’origine contadina, non bracciantile ma borgese; quasi tutti emergono dai paesi dell’entroterra, sostenuti negli anni dell’impresa universitaria, sotto le bombe liberatrici, dai prodotti della campagna, dalle uova, dal pane e dal formaggio che in valigie di cartone raggiungono Palermo, per mezzo di avventurosi corrieri, persino nei mesi più duri dell’emergenza. Grati, ricevono il nutrimento strappato dalla fatica di padri e fratelli alle più avare contrade dell’isola e coprendosi con giacche e cappotti che le madri ricavano da ruvide coperte militari, i più fortunati calzando d’estate e d’inverno duri scarponi del regio esercito furtivamente acquistati alla borsa nera, ripagano lo sforzo delle famiglie profittando nel mestiere della conoscenza.

Vincitori di concorsi nazionali, assegnati alle cattedre del capoluogo di provincia, alloggiano in pensioni governate da vedove di guerra, dentro fumose camere con vista sui tetti cisposi, sugli orti della valle, sul mare lontano. A sera rincasano, obbedienti al perentorio richiamo dei soffritti, per consegnarsi alle agre premure delle padrone e perdersi, nell’attesa delle pietanze, in vaghe nostalgie del paese, della casa paterna, delle corvée estive nelle chiuse, delle anguille rubate ai torrenti salmastri, degli oziosi andirivieni tra la Croce e il Convento, della macchia e della sagrestia. Dopo cena, i più audaci tornano ad uscire, i lucidi capelli pettinati all’indietro, indifferenti al muto biasimo della vedova, per ritrovarsi in quelle case profumate che una loro collega si sarebbe adoperata a chiudere per sempre, il 28 febbraio 1958.

Non sono passati dieci anni dalla fine della guerra che sposano ragazze girgentane di buona famiglia, insegnanti o casalinghe. La città li assimila e in parte li disinnesca. Intelligenza e cultura sono poste dotali, valgono l’appartamento concesso alla sposina, diventano oggetto di transazioni, vengono pesate, monetizzate, quotate sul mercato delle lezioni a pagamento. La forza dell’ulivo saraceno, tolto alla campagna avita, sfuma negli innesti cittadini.

Nel frattempo, la città si svuota e si riempie: diverse migliaia di girgentani poveri emigrano verso il nord industriale d’Italia e d’Europa, un esodo che spoglia le strade e i cortili del centro storico, un passivo demografico che viene immediatamente compensato da un eguale flusso di inurbati, che a loro volta abbandonano alla desolazione i paesi e le campagne della provincia. L’umanità uscente, forza lavoro non qualificata al servizio della metamorfosi postbellica, insegue il miracolo economico e conoscerà lo stigma e il disprezzo in cambio di uno stentato benessere. L’umanità entrante è più composita, c’è la seconda generazione dei professori e dei maestri elementari, ci sono alcuni professionisti, medici e avvocati, c’è un improvvisato ceto imprenditoriale, capimastri che si affrancano dal lavoro sottopadrone e s’avventano sulle commesse pubbliche e private; c’è, soprattutto, una moltitudine di clientes avviati dai patroni alle sinecure impiegatizie negli ubertosi ranghi della pubblica amministrazione, periferica e locale. Queste le truppe, per le cui necessità logistiche si forma rapidamente una classe di facilitatori, di esperti della mediazione parassitaria nelle segreterie politiche, nei sindacati, negli uffici tecnici, nelle stanze che contano, un brulicante sottosuolo di furbacchioni, di segretari particolari, di uomini di fiducia di questo e di quello.

I fuoriusciti sono un esercito in rotta, sospinto dalla fame e dalla speranza; lasciano i catoi promiscui, condivisi col mulo e la capra, le casupole aggrappate al colle, i cortili riposti, fragranti di basilico e fradici di urea. Gli avventizi sono una forza di occupazione, colmano il vuoto con appetiti più mirati, soddisfatti dai professionisti del sinallagma elettorale. Per i primi è un vertiginoso sbaraglio, per i secondi un giudizioso traguardo. I girgentani che rimangono li riconoscono in fretta, per la comune attitudine al patteggiamento, per la medesima vocazione gregaria; qualità affinate in secoli di sudditanza: dolorosa, in provincia, verso i signori delle terre e i loro soprastanti; comoda, in città, verso il vescovo e il suo clero. Concorreranno insieme, negli anni a venire, a ridisegnare la mappa delle affiliazioni tribali, del comparaggio diseguale coi nuovi maggiorenti, solo differenziandosi per talune sfumature psicologiche: più accorati e irresoluti gli antichi cittadini, più spicci e determinati i recenti.

Questa somma, questo impasto non rimarrà senza conseguenze. La città volta le spalle al suo contegnoso passato votandosi ad una modernità senza misura e fuori contesto. La minuscola borghesia impiegatizia e commerciale, i capintesta delle professioni lecite e no, i piccoli padreterni della politica locale, gli impresari e i manipolatori della cosa pubblica, famigli e pretoriani, tutti rimediati e rimpannucciati, chi più chi meno, dall’imprevista prosperità, pretendono di dare una forma tangibile e vistosa alla nuova condizione. Il cemento armato è la materia che traduce nell’ordine del reale brame speculative e sogni dozzinali di ogni grandezza, travisate suggestioni moderniste, deliri di onnipotenza e più ragionevoli istanze igieniche. Se il centro storico è la patria abbandonata dai girgentani della diaspora, i suoi immediati dintorni diventano la terra promessa dei pionieri dell’edilizia cubiforme, non più cittadini ma inquilini di una Agrigento verticale che con la Girgenti rupestre non ha altro rapporto che quello della prossimità topografica. E più s’aggrava la febbre muratoria e il contagio si diffonde, più aumentano le profanazioni della “cittaduzza murata”.

Sghembi fabbricati, lugubri casamenti, pretenziosi condomini scalzano le semplici case, soffocano i giardini, le ville, gli slarghi, occupano gli spazi della socialità, accecano i belvedere, adombrano le facciate solatie, espropriano ai resistenti della città vecchia i tramonti vinosi. Niente si oppone a tutto questo, né il decoro di una generazione che ha rotto i suoi legami con la tradizione né gli argini legali, travolti dal patto scellerato tra amministrati e amministratori, che insieme riscrivono localmente il contratto sociale, confiscando allo Stato la pretesa di regolare lo jus aedificandi: ogni disciplina è derogata, ogni digressione sanata, ogni vincolo rimosso o aggirato. La questione è di tale vastità da trascendere le competenze dei tribunali, che difatti non mancheranno di sancire la conformità giuridica di quello che si presenta agli occhi del mondo come eticamente abnorme ed esteticamente deforme.

A metà degli anni Sessanta il danno è fatto. La città medievale, che s’era conservata aerea, sospesa sulla valle, è scomparsa, cancellata da un deprimente agglomerato di costruzioni illogiche, affastellate l’una sull’altra in uno sconcio amplesso cementizio che cinge e soffoca Girgenti e offre al visitatore una sconcertante visione orgiastica che toglie la parola, per la sua sovrana bruttezza. Non sembrano case d’uomini, ma enormi gibbi erotti chissà come dal colle, madornali ernie che le tenere argille dei calanchi non sono più riuscite a contenere e che nessuna chirurgia urbanistica sarà capace di ridurre nel mezzo secolo successivo. Gli abitanti di questo luogo, dissipata la continuità simbolica tra le comunità del passato e quella presente, né akragantini né girgentani, stranieri a se stessi, senza più remore dominicali, volgono adesso sguardi colmi di concupiscenza edificatoria verso la Valle dei Templi, empietà che nessuna generazione aveva ardito, da quando Agrigentum si era rappresa sul colle. Inestimabile, l’eredità greca ed ellenistico-romana subisce assurde incursioni barbaresche, dall’acropoli e non più dal mare. Scorrerie senza guida e senza progetto, mentre c’è già chi invoca insediamenti industriali all’ombra delle colonne doriche, le “quattro pietre” cui si addebita il mancato “sviluppo” della “nostra Agrigento”. Le smanie per la villeggiatura fanno il resto, imbrattando la superba costa, gli empori fenici, gli approdi greci e romani di casotti balneari vieppiù anarchici e pretenziosi.

Alle sette del mattino del 19 luglio 1966, quando già le prime crepe cominciano a rameggiare sulle facciate di alcuni edifici, un eroico netturbino dà l’allarme, urlando di casa in casa, di portone in portone, strappando al sonno e ai crolli gli abitanti della zona sudoccidentale, interessata dagli smottamenti.

Non fa vittime la frana di Agrigento, evento geologico di modesta portata che provoca la rovina di alcune palazzine, lo sgombero e l’abbattimento di molte altre adiacenti, il forzato abbandono del Rabato, il quartiere contadino di origine berbera il cui nome significa borgo fuori le mura. Migliaia sono gli sfollati, nell’immediato sommariamente attendati e avaramente sfamati dall’assistenza pubblica e successivamente ricollocati in zone periferiche della città, come la nuova Villa Seta, un suburbio funzionalista, astratto e premeditato, dove il popolo ancora integrato degli ultimi rabatellesi conoscerà l’anomia e l’esclusione sociale nei decenni successivi.

La frana è uno “strappo nel cielo di carta”, per usare l’espressione di Luigi Pirandello, uno squarcio da cui finalmente l’Italia e il mondo guardano Agrigento e da cui Agrigento è costretta a guardare chi la guarda. Tutti gridano allo scandalo. Dirigenti politici, intellettuali organici, fustigatori dei costumi denunciano l’orrenda speculazione edilizia, che probabilmente è la causa dell’evento franoso e che certamente ne ha aggravato gli effetti. Mario Alicata, direttore dell’Unità e deputato comunista, con acuminate requisitorie mette sotto accusa la classe dirigente dell’isola, penetrata da forze opache se non scopertamente criminali e incapace di governare con minima decenza il territorio. Viene evocata la mafia, già contitolare del sacco di Palermo e demoniaca presenza della società siciliana. Gli amministratori agrigentini vengono tratti a processo: inchiodati alle proprie responsabilità dalla prosa alta e stringente di un’impietosa inchiesta ministeriale, saranno assolti.

La frana di Agrigento è uno specchio nel quale il paese intero si riflette e inorridisce di sé. Lo Stato corre ai ripari, con provvedimenti legislativi che mettono in salvo il salvabile, ossia la Valle dei Templi, sancendone l’assoluta inedificabilità. Una misura che devia appena in tempo la compulsione costruttiva degli agrigentini, spingendola a sfogarsi, malamente, verso nord e verso est. Il resto è storia dei nostri giorni. La frana ha salvato i templi, la città è esplosa in una pluralità irriducibile e scomposta di quartieri eccentrici, urbanisticamente incoerenti e socialmente incompiuti.

E i professori degli anni Cinquanta, quelli che sembravano usciti da una pagina di Brancati? Alla fine del secolo vivono nascostamente, sorridono poco, parlano ancora meno. Conservano la cognizione del dolore maturata durante la guerra, ma hanno rinunciato a disarmare gli sciocchi e gli arroganti cogli incantesimi di una finissima dialettica. La libreria di Onorato, il loro quartier generale, a metà degli anni Ottanta ha chiuso, sostituita da un negozio di scarpe.

 

* In Sicilia, nel secolo scorso, con la parola scioppetto si indicava genericamente una bottiglia di bibita da 33 cl, mentre con la parola spongato ci si riferiva al gelato in coppa.

Giandomenico Vivacqua :

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