Quando ci congedammo, l’ultima volta al telefono, due anni fa, mi disse: «Mi auguro tanta salute: perché, sai, in fondo è quella di cui abbiamo più bisogno». Per capirla tutta: più del successo, dei soldi, degli applausi, dei 100 milioni di dischi venduti, dei 60 anni e passa di carriera, della popolarità internazionale con il pubblico che ti sente “suo”, perfino i riservatissimi cinesi che ti aspettano all’ingresso artisti del teatro, a Pechino, per cantare in coro con te, per strada, “L’italiano” (in cinese) e chiederti un autografo. Il lato tenero, il fianco scoperto di Toto Cutugno, che già da qualche anno combatteva contro il tumore, che, da indomito qual era, non voleva darla vinta nemmeno alla malasorte.
Grande Toto, adesso lo diciamo, adesso lo scriviamo ma quanti equivoci, quanti qui pro quo, quante piccole perfidie, quante battute aspre come limoni. Lui incassava e si incazzava. Come quando gli dicemmo era sembrata proprio una furbata partecipare all’Eurofestival con “Insieme”, canzone tutto sommato non indimenticabile, che però si trasformò in un inno europeista. Dettata da una vocazione sincera perché lui era comunque abbastanza apolitico: cioè, aveva le sue idee, le sue convinzioni, forse anche le sue simpatie (tendenza centro) ma non aveva mai parteggiato per nessuno. Una sera, in occasione di un concerto in Romania, gli fanno trovare schierato e impettito un coro di bambini che la canta come fosse un inno, per l’appunto, e una petizione perché lo diventi davvero, un inno, quello dell’Unione europea. Lui declina cortesemente l’invito a firmare l’autocandidatura musicale («ci credevo davvero a un continente senza confini, senza frontiere, interessi comuni, nessun conflitto interno né tantomeno guerre»: Toto l’utopista, lo stesso che cantava in tempi non sospetti “figli del Duemila, bianchi e neri tutti in fila”). All’Eurofestival quell’anno. 1990, fra l’altro ci arriva per caso: i Pooh che hanno diritto a parteciparvi avendo vinto Sanremo rifiutano l’invito con un “no, grazie” e Adriano Aragozzini spedisce a Zagabria lui (l’eterno secondo: quanto lo faceva arrabbiare questa etichetta!) che si presenta però non con il brano festivaliero ma proprio con “Insieme”: e da qui il sospetto della “furbata”.
Per inciso, ma non troppo: quell’anno a Sanremo, complice la grandeur aragozziniana alla quale si deve però il ritorno dell’orchestra sul palcoscenico dopo anni di playback, i cantanti si esibiscono in “doppia esecuzione” con un big straniero e a lui – che presenta “Amori” – tocca un certo Ray Charles. Altro giro, altra polemica: il re del soul la cambia quasi tutta quella canzone, sembra un’altra e tutti lì a piluccare (spartito alla mano con la collaborazione di alcuni professori d’orchestra!) su quanto e come l’avesse trasformata, l’armonia, la tonalità, gli accordi… In realtà Ray Charles canta il brano secondo il provino che qualche mese prima gli ha mandato Cutugno negli States. Mistero risolto, cattiveria bucata e sgonfiata come un palloncino.
Il vero capolavoro di Cutugno è però “L’italiano” che insieme a “Volare” è la canzone nostrana più conosciuta nell’orbe terracqueo. Quella sì, diventa un inno. “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano…”: i già citati cinesi per strada a Pechino e il Coro dell’Armata Rossa, gli eterni nostalgici di Little Italy e i vecchietti delle vie di Sugamo a Tokyo, i turisti sulla spiaggia a Bali e i pescatori norvegesi. È da sempre ritenuta l’alternativa possibile al duo Mameli-Novaro di “Fratelli d’Italia”, al “Va’ pensiero” verdiano di posticcia appropriazione risorgimentale, a “Volare” e alla più scanzonata e meno papabile “Azzurro”.
Riservatissimo sulla vita privata (una moglie da sempre, un figlio nato fuori dal matrimonio a cui ha messo il nome del padre, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, sottufficiale di Marina con la passione per la musica), Cutugno ha incarnato lo spirito autentico del cantante popolare e nazionale, un po’ come Al Bano anche se in maniera più taciturna, qualche volta ombrosa, giocata in difesa (visti gli attacchi talora gratuiti, talaltra in contropiede). E s’è guadagnato la stima di tanti artisti internazionali per i quali ha composto canzoni, specie per molte star d’Oltralpe.
L’affetto della gente, poi, lo toccava per mano, concerto dopo concerto, piazza dopo piazza, nel mondo ma anche all’ombra dei campanili nostrani. Mi ha raccontato una regista Rai che, durante “Piacere Raiuno”, che era il mezzogiorno tv diventato itinerante di settimana in settimana attraverso i bellissimi teatri della provincia italiana, non si stancava mai di firmare autografi, di scambiare quattro chiacchiere con la gente. Capace magari di qualche estemporanea bizza in diretta ma sempre pronto a sedersi con qualche ammiratore o ammiratrice ai tavolini di un caffè.