Fino a cinque giorni fa, vigilia delle celebrazioni di Sant’Agata, nelle chat di Fratelli d’Italia scorreva il veleno. Molti deputati, rimasti scottati dalla bocciatura (a scrutinio segreto) della “salva-ineleggibili”, minacciavano la crisi e il ritiro degli assessori dalla giunta. La rabbia, acuita dal viaggio a vuoto del capogruppo Assenza a Palazzo d’Orleans per la revisione della griglia dei manager della sanità, e sobillata da potenti deputati alla Camera, però si è smontata come panna. All’appuntamento catanese con Meloni, che sabato ha fatto visita alla gigafactory 3Sun e alla santa, tutti i patrioti erano imbellettati e sorridenti. E persino i tre assessori “ribelli”, che seguendo il diktat di Manlio Messina avevano disertato la giunta di mercoledì, hanno posato per la foto ricordo con il governatore del cuore: quel Renato Schifani che ancora una volta, alla prova del fuoco, aveva miseramente fallito. In termini di leadership e di carisma. Nemmeno la sua presenza in aula, secondo alcuni a scopo “intimidatorio”, aveva ringalluzzito lo spirito del “centrodestra unito” ed evitato la beffa dei franchi tiratori.
Ma a distanza di poche ore la domanda sorge spontanea: dov’è finita la crisi? Che ne è del rispetto invocato da FdI? Come si sono evoluti i rapporti con la Lega? In cambio di quali contropartite i patrioti hanno preferito desistere? L’unico coccio rimasto sul campo di battaglia è il mancato saluto (raccontato dal quotidiano ‘La Sicilia’) fra il vicepresidente leghista Luca Sammartino e il ministro Nello Musumeci, lunedì mattina, in cattedrale. Ma quella è più che altro una questione personale che si trascina da tempo. Perché, tornando alla festività di Sant’Agata, anche Galvagno e Sammartino hanno sfilato assieme per rendere omaggio alla patrona. Fotografandosi nello stesso scatto, che è un altro segnale di disgelo. Eppure in aula sembravano detestarsi: Sammartino a capo della fazione che ha voluto affossare la leggina per salvare seggio e stipendio a tre deputati meloniani in odor di decadenza; Galvagno alla guida di un partito che all’Ars e alla Regione sconta una carenza palese di leadership, ma che tuttavia pretende si votino le peggiori nefandezze.
La settimana è trascorsa così, fra minacce e (false) ritorsioni. Tutto doveva crollare. Poi al calar della sera l’indicazione romana: abbassate i toni. Perché lo scoppiettante mercoledì da leoni era finito su tutte le cronache nazionali, stile Sanremo, provocando forti tensioni tra i big sponsor di Lega e Fratelli d’Italia. Così la crisi si è subito rivelata per quella che era: una manfrina. Gli assessori sono rientrati nei ranghi (con la promessa di uno strapuntino alla prima occasione), i deputati hanno fatto buon viso a cattivo gioco, Schifani è volato a Milano ad esaltarsi per la Bit. Non è cambiato nulla tranne una cosa: che nessuno governa.
E’ stato così per oltre un anno di legislatura e, allo stato attuale, non si notano progressi. Tanto che l’Assemblea regionale ha ripreso la sua opera infaticabile affrontando il vero caposaldo di questa esperienza: l’approvazione del Ddl “sospeso” sulle province. Sospeso nel senso che, in termini di legittimità costituzionale, la legge dovrà superare l’impugnativa dello Stato e la fuffa di alcune dichiarazioni come quelle del Ministro Calderoli, che non potendo ammettere l’incompatibilità fra il provvedimento siciliano e la Legge Delrio, ancora vigente, si è ripulito la coscienza dicendo che “nelle Regioni a statuto speciale ognuno decide a casa propria”. Insomma, si riparte dall’ennesimo azzardo che, unito alla “salva-ineleggibili” (ormai stroncata dall’aula) e alla sanatoria per le ville costruite a meno di 150 metri dal mare, ha caratterizzato questi mesi di limbo. In cui nemmeno l’intervento (potenziale) della magistratura scoraggia certe imprese.
Fanno di tutto per non governare, e non si nascondono nemmeno. Ieri pomeriggio, tra gli sfottò dell’opposizione, a sostegno del ddl Province sono intervenuti deputati che in un anno e mezzo non avevano mai fatto sentire la propria voce: come il forzista Gaspare Vitrano. Nonostante le assenze numerose (specie in FdI), hanno intrattenuto le masse con la discussione generale su un disegno di legge che prevede un impegno di spesa solo per il ritorno degli organi istituzionali – e non invece per le funzioni che gli enti dovranno avocare a sé – mentre qualcuno già s’ingegna per cercare di comparare i guadagni dei futuri presidenti di provincia con quelli dei sindaci delle grandi città metropolitane (aumentati l’anno scorso). Ci torneranno con l’ennesima leggina, c’è da giurarci.
Lo spirito di Sant’Agata sembra però ammantare Sala d’Ercole, sempre più ostaggio del dolce far nulla del governo. Il centrodestra sembrava tornato granitico (almeno fino al voto di questo pomeriggio), le opposizioni volenterose ma ininfluenti. Se la riforma resisterà – la vuole Schifani, la vuole fortemente anche Cuffaro – si potrà chiudere il cerchio su una legge che la coalizione aveva indicato agli elettori come prioritaria; semmai dovesse essere impugnata, nonostante le rassicurazioni di Calderoli, sarà l’ennesima figuraccia da condividere. Ma almeno non si sarà messo a repentaglio l’equilibrio di una squadra che si regge prevalentemente sulla spartizione delle poltrone, sulle sfilate alle feste patronali, sul non-governo. E’ questa l’unica medaglia da appuntarsi al petto.