Con la morte del Cav. è venuto meno uno dei suoi capisaldi. Era stato Silvio Berlusconi a riammetterlo in Forza Italia, fino a farlo diventare suo consigliere politico, dopo la scappatella nel Nuovo Centrodestra di Alfano. Era stato l’ex premier a consacrarlo sulla scena politica nazionale, affidandogli la palma di presidente del Senato prima e di capogruppo azzurro poi. Adesso, però, Schifani dovrà arrangiarsi da solo, anche se per la verità aveva cominciato a farlo alla vigilia delle ultime Regionali. Quando – lui ci tiene a rimarcarlo – la sua presenza è stata invocata dai maggiorenti del centrodestra per riunire una coalizione dilaniata dai litigi fra Musumeci e Micciché.
Schifani ha sempre raccontato un pezzo della verità, evitando alcuni dettagli ingombranti. Ad esempio che il suo lasciapassare per Palazzo d’Orleans fosse Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato e “regista”, fino a pochi mesi fa, delle operazioni sicule di Giorgia Meloni. Ambasciatore di Fratelli d’Italia nell’Isola, oggi La Russa è alle prese con un momento difficile sotto il profilo politico e personale. Il terzogenito, detto Apache, è rimasto aggrovigliato in una vicenda di presunta violenza sessuale ai danni di una ragazza che ha denunciato il fatto a distanza di settimane. La Russa ha avuto l’impulso da padre e, in qualità di padre, ha calpestato l’istituzione (di seconda carica dello Stato). Non solo: si è anche sostituito ai giudici pronunciando una sentenza di assoluzione che non spettava a lui. “Dopo averlo a lungo interrogato – ha detto La Russa – ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante”.
Questo, semmai, lo dirà un giudice. Lo strafalcione di La Russa ha finito per debilitare la figura del politico e del presidente del Senato agli occhi delle opposizioni (figurarsi se il Pd, al traino della Schlein, non sfruttasse l’occasione), ma anche dei colleghi della coalizione, della stessa Meloni (“Io non l’avrei fatto”) e soprattutto del Presidente della Repubblica, che ha appreso di questa entrata in gamba tesa – su un altro potere dello Stato – direttamente dal Paraguay, dove si trovava in visita istituzionale. Come rimediare? Ormai è tardi. La caduta negli inferi del massimo inquilino di Palazzo Madama, che nel corso della legislatura si era reso celebre di qualche strafalcione di natura ideologico, toglie al politico quel pizzico di autorevolezza che in tanti, fra cui lo stesso Schifani, gli avevano riconosciuto. E’ per tener fede agli impegni assunti con La Russa e FdI che il governatore, finora, non ha toccato gli equilibri della sua giunta; ed è per lo stesso identico motivo che, all’indomani dello scandalo di Cannes, abbia evitato all’assessore Scarpinato un licenziamento in tronco. C’era Lollobrigida a proteggere la linea dell’ex ufficiale dell’esercito, e La Russa quella del partito. “Boia chi molla”.
L’estate infelice di Schifani, però, consta di un altro epilogo certo. Antonio Tajani, suo rivale fino a qualche settimana fa, è stato eletto segretario nazionale di Forza Italia. E’ uno degli effetti della morte di Berlusconi e della prima, palese impossibilità di trovargli un successore. Il nostro eroe si è arreso all’evidenza, spiegando di recente in un’intervista al Giornale che “per la sua storia, per la sua autorevolezza anche in Europa, e per il ruolo di coordinatore al quale negli ultimi anni lo ha destinato lo stesso Berlusconi”, Tajani “è il candidato naturale al ruolo. Per quanto mi riguarda non vedo altre ipotesi anche se in democrazia le regole sono sacre e saranno rispettate”. Peccato che fino a poche settimane prima, fra i due, erano sorto un alterco. Tutto a causa di un’altra intervista di Schifani, quella volta a Repubblica: “Il rilancio di Forza Italia? Ben venga, purché non sia fatto seguendo la logica della porta accanto. Non abbiamo bisogno di una Forza Italia con una classe dirigente del Nord e con i voti che vengono dal Sud. E’ uno strabismo che va corretto”.
La replica del Capo della Farnesina arrivò pochi giorni dopo la morte di Berlusconi sul Corriere della Sera: “Sempre stato contrario alle correnti, non credo ai personalismi ma alle persone e sono sicuro che tutti avranno qualcosa di importante da fare (…) Come dimostrano i capigruppo, c’è già una rappresentanza Nord, Sud e Centro. E ripeto: ci sarà un ruolo per chiunque voglia lavorare”. Lavorare, non primeggiare. Né litigare. Su questa stessa linea si è espresso, in seguito, anche il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè. Al netto degli orpelli, resta la sostanza: Schifani avrebbe voluto scalare il partito dall’interno e affermarsi in uno dei tanti ruoli messi in palio dalla Fascina: quello di coordinatore per il Mezzogiorno. Poi le cose hanno preso un’altra piega, ed è stato costretto ad adeguarsi.
A nulla è valso il tentativo di accreditarsi ai piani alti espugnando il partito con Marcello Caruso, il suo prestanome, nonché capo di gabinetto, diventato commissario regionale al posto di Micciché; né di perfezionare la campagna acquisti con l’arrivo, dal Movimento 5 Stelle, dell’ex candidato alla presidenza della Regione, Giancarlo Cancelleri. Tanto più ha avuto l’esito sperato la cannibalizzazione di Forza Italia dall’interno: che da un lato ha dato a Schifani la possibilità di emarginare Micciché – ben prima della vicenda della droga – e di confinarlo al gruppo misto; e dall’altro gli ha consentito di aggregare sotto la sua ala i restanti parlamentari, compresi quelli che fino all’ultimo si erano dichiarati fedelissimi al nemico Gianfranco. Anche quest’ultima operazione, però, si sta rivelando un boomerang per la tenuta del presidente della Regione. FI è un partito dilaniato dai rancori: il rapporto con l’assessore all’Economia Marco Falcone, compromesso da alcune divergenze e dal ritorno in auge di Gaetano Armao, è la dimostrazione plastica del fallimento.
Schifani, che prima ha perso Berlusconi e poi La Russa, ha dovuto accontentarsi di Tajani. Voleva fare il generale, ma è rimasto un soldato semplice. Peggio di così…