Voleva la Regione e non l’ha avuta. Voleva la presidenza dell’Ars e non l’ha avuta. Voleva la Sanità e non l’ha ottenuta. Voleva la deroga per formare un gruppo parlamentare e gli hanno risposto che sulla discrezionalità devono sempre e comunque prevalere le regole (per questo ha scelto di rinunciarvi). E lui, Gianfranco Miccichè, anziché fuggire dalla sconfitta e trovare rifugio a Roma, ha deciso di rinunciare al seggio del Senato e di rimanere triste, solitario y final all’Assemblea regionale. “Per difendermi”, ha dichiarato.
Lui non perde occasione per mostrare i muscoli e dire al mondo che non è ancora né bolso né bollito. Ma i nemici lo tratteranno sempre da appestato e gli amici gli diranno che somiglia tanto al lupo che abbaia alla luna. L’unico ad andargli dietro, in parte, è Silvio Berlusconi. Che non ha ascoltato le male lingue siciliane e ha deciso, almeno per il momento, che Miccichè era e rimane la guida di Forza Italia in Sicilia. Anche da imperatore senza sudditi. Tutti o quasi i parlamentari eletti all’Ars, molti grazie a lui, gli hanno voltato le spalle: hanno preferito inseguire la scia del potere e degli incarichi, quella che porta dritti a Renato Schifani. In pochi hanno tenuto fede all’amicizia e alla militanza. Quasi nessuno ha mantenuto accesa la fiamma della riconoscenza, che Miccichè ogni tanto – quando non si lascia andare a sguaiataggini che non gli fanno onore – estrapola dal cilindro sotto forma di citazioni dotte (le sue preferite appartengono al sociologo Francesco Alberoni).
Ma i buoi sono ormai scappati dalla stalla e al vicerè berlusconiano – l’artefice del 61 a 0 alle Politiche del 2001, colui che ha tenuto in vita un partito trapassato dal peso della storia e dalla caducità del suo leader – non è rimasto che appellarsi ai ricordi e all’orgoglio. Oltre che a una sete di vendetta difficile da contenere (e da soddisfare): “Questi mi vogliono fare fuori, con modalità feroci, perché hanno paura che le liste, ora che si voterà a Catania e altrove, le farò io. Ma se lo mettano in testa: il simbolo ce l’ho io e solo Berlusconi me lo può togliere”, ha detto qualche giorno fa al Fatto Quotidiano. Come a voler rimarcare il peso della memoria e dell’amicizia, quella del Cav., che di certo è meno rancoroso di tutti coloro che, con l’avanzare degli anni e dell’età, sono sfuggiti al suo controllo e alla sua benevolenza, portando i propri talenti – si fa per dire – altrove. E’ accaduto con Fini, Alfano e anche con Schifani, riaccolto ad Arcore (persino da consigliere politico) dopo una scappatella provvisoria.
Ma il punto è anche questo: invocare Berlusconi significa abbaiare alla luna. Pretendere che sia il Cav. a risolvere i problemi disseminati nel corso degli anni in Sicilia, significa aver già deposto la speranza. I nemici di Micciché si sono moltiplicati a perdita d’occhio nel corso dell’ultima legislatura, quando l’ex viceministro dell’Economia decise di far fuori Musumeci dalla corsa per il bis a Palazzo d’Orleans. Un piano provato e riprovato e fatalmente riuscito l’estate scorsa, quando, però, il vicerè non è passato all’incasso. Al contrario: Schifani non era il “suo” candidato, e aver lasciato che lo scegliesse La Russa, per nome e per conto di FdI, è stato lo sfregio più grande alla sua storia e alle sue battaglie. Ma il delitto perfetto non esiste (qui ci avviciniamo parecchio), così come – a certi livelli – non esiste la vendetta. Sbattere fuori gli ‘irriconoscenti’ Schifani, Falcone & soci, significherebbe per Berlusconi disperdere tutta una serie di rapporti che l’anziano leader, nonostante la perdita (secca) di centralità, ha il bisogno e il dovere di coltivare. Anche a 86 anni suonati.
In primis quello col presidente della Regione in carica, il cui nome, comunque, è stato avallato anche da Silvio; ma anche con l’attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa, che è stato big sponsor di Schifani nonché “risolutore”, in estate, delle complicatissime vicende che avevano investito il centrodestra siciliano, fin quasi a disintegrarlo. Infastidire La Russa significherebbe, a cascata, irrigidire la Meloni, nientepopodimeno che l’attuale presidente del Consiglio, che con Berlusconi conserva un (necessario) rapporto d’amore e diffidenza. La disamina complessiva, d’altronde, non si limita alla Sicilia. Ma investe una serie di affluenti che permettono al Cav. una sopravvivenza dignitosa sotto il profilo giudiziario, imprenditoriale e infine anche politico. In questa galassia d’interessi, Micciché costituisce un puntino (dal valore affettivo notevole). E Schifani poco più. La strategia della “stasi” serve a Berlusconi per garantire entrambi, ma soprattutto se stesso e la governabilità del Paese. Un eventuale processo di pacificazione dentro Fi, magari con un ambasciatore “straniero”, non potrà prescindere da questo obiettivo. Per questo, anche alla luce della rinuncia alla deroga e dell’approdo al gruppo misto, è difficile da comprendere il tentativo di Micciché di immolarsi a Palermo, e di promettere fuoco e fiamme, anziché godere del prestigio e della visibilità offerti da un incarico al Senato.
Chiudere con la Sicilia non avrebbe scalfito di un millimetro l’ottimo lavoro – riconosciuto anche dagli intrattabili Cinque Stelle – negli ultimi cinque anni alla guida dell’Assemblea regionale; e avrebbe contribuito a scrostare la Regione da questa patina di irriducibile livore che condiziona l’operato del governo e della maggioranza, consegnando a Schifani l’onere e l’onore di provarci. Anziché crogiolarsi. Nel senso che il neo governatore, in questa disputa perenne e un po’ stucchevole, trova sempre un alibi perfetto per spostare l’attenzione o giustificare le incompiute. Per annunciare e ritrattare; per invocare trasparenza e snellimento delle procedure e affidare, subito dopo, il chiavistello delle operazioni a personaggi attempati; per ritardare la conoscenza di una macchina regionale che non gli si addice granché – specie in quest’inizio – dove il presidente che vorrebbe controllare tutto, alla fine cade sempre dal pero. Per un motivo o per un altro. E se qualcuno gli fa notare una cosa – che sia una critica, una polemica, o un sospetto – lui finisce per additarlo, con sceneggiate rancorose, come “amico di”. Di Miccichè ovviamente.
Il livello di pesantezza dentro Palazzo d’Orleans, quello sì, è diventato ingovernabile. Schifani credeva di poter fare il presidente grazie alla sua storia di uomo equilibrato, che proviene dall’avvocatura ed è abituato a governare le tensioni. Ma qui non siamo a palazzo Giustiniani. La Regione non è il giardino delle delizie. Non è la sede della presidenza del Senato, ma un posto diverso, dove le tensioni si tagliano con il coltello, dove maturano le polemiche e mai le soluzioni, dove sarebbe utile un intervento tempestivo e accurato per ripulire l’immagine di un’istituzione fatta a pezzi (nella credibilità, soprattutto) da governi d’incuria. Dove pestarsi i piedi è un classico, e collaborare soltanto un’eccezione. Dove Berlusconi non può inseguire tutti i nemici di Micciché, o rischierebbe anche lui di rimanere solo. Diceva un tale, meno famoso di Alberoni, che “non ci si può aspettare mai gratitudine per ciò che facciamo. La nostra gratifica è già in quello che abbiamo fatto”. Se Micciché l’avesse capito in tempo, forse, avrebbe compiuto altre scelte. Evitando alla sua epopea un finale così amaro.