La società che gestisce le procedure informatiche della Regione, Sicilia Digitale, ha fatto scuola. E, al netto dell’onorabilità di chi ci lavora (che non sempre possiede competenze aggiornate, per usare un eufemismo), è il classico esempio di macchina succhiasoldi che, nei secoli dei secoli, è rimasta attaccata alle mammelle di Mamma Regione. Che, però, non è più ricca come un tempo. Così, per chiudere un vecchio contenzioso con gli ex soci privati, l’assessorato all’Economia, attraverso il dipartimento deputato all’innovazione tecnologica (ARIT), ha dovuto prelevare 12,3 milioni di euro dal Fondo Contenziosi e “sanare” una pendenza che avrebbe rischiato – alla lunga – di determinare il fallimento della partecipata. Dio ce ne scansi. Ma l’universo di palazzo d’Orleans è pieno di pozzi senza fondo. Alcuni dei quali andrebbero eliminati ‘senza se e senza ma’, allo scopo di riqualificare la spesa e avviare una vera, seria campagna di riduzione degli sprechi.

Questo messaggio, fatto già proprio dalla Corte dei Conti e del Consiglio dei Ministri, e messo nero su bianco nell’Accordo Stato-Regione del 14 gennaio, sembra non riguardare più di tanto i nostri governanti. Le società e gli enti partecipati (o controllati) dalla Regione sono un’infinità. Alcuni più di altri gridano vendetta. Prendete l’Esa, l’Ente di Sviluppo Agricolo. Questo giornale se n’è occupato più volte, e non sempre per evidenziarne le abilità. Nato nel 1965, l’istituto – che è sottoposto alla vigilanza e alla tutela dell’assessorato all’Agricoltura – avrebbe dovuto completare la riforma agraria, ponendo in essere tutta una serie di interventi sul territorio: dalla manutenzione delle strade interpoderali a quella delle dighe, passando per l’elettrificazione rurale. Funzioni che si sono esaurite nel tempo, e che non sono mai state rimpiazzate.

L’Esa, però, è sempre rimasta uguale a se stessa e nemmeno il proposito del presidente Musumeci di sopprimerla (o comunque di accorparla), nel 2018, privò la Sicilia dell’ “ultimo vergognoso carrozzone della Prima repubblica”, come ebbe a definirlo il presidente. Al netto degli incastri di potere che hanno caratterizzato gli ultimi quattro anni, con un valzer aperto per le funzioni di presidente del Cda (l’attuale è Giuseppe Catania, braccio destro di Musumeci) e di direttore generale (controllato a lungo dal Pd), e delle difficoltà nell’approvazione dei bilanci, l’Esa è vivo e lotta insieme a noi. Per un periodo non indifferente ha lottato contro la Regione stessa, dal momento che una sentenza del Tar del 2015 obbligava palazzo d’Orleans a versare nelle casse del “suo” ente una cifra monstre (120 milioni) per un contenzioso nato nel 2007, durante l’epoca delle patrimonializzazioni sfrenate, a seguito della cessione di cinque immobili per cui l’Ente di Sviluppo Agricolo non fu mai ricompensato. La causa si è chiusa qualche mese fa, con un risparmio – da parte della Regione – di 47 milioni di euro. E’ stato uno dei successoni dell’assessore Armao.

Peccato che l’Esa, nel 2020, abbia ottenuto dalla Regione un contributo annuo pari a 22,3 milioni di euro. E che tuttavia non sia riuscita a salvaguardare il suo patrimonio: non solo quello immobiliare (la Regione sta tentando di sottrarre al degrado l’ex palazzo Florio di via Catania), ma anche sostanziale (la biofabbrica di Ramacca, un gioiello d’innovazione, risulta abbandonata).  E’ andato male il tentativo di inquadrare alcuni dipendenti nel livello dirigenziale senza previo concorso, mentre è andato in porto l’adeguamento contrattuale degli operai a tempo determinato (i cosiddetti ‘trattoristi’), che in questo modo, secondo Scilla e Musumeci “vedono riconosciuto il loro contributo di professionalità finalizzato alla manutenzione del territorio e del paesaggio rurale”. La nuova mission, secondo il presidente Catania, è rappresentata da “viabilità rurale, dissesto idrogeologico e interventi manutentivi nei Parchi archeologici”.

Un’altra potenziale macchina succhiasoldi è quella dei Consorzi di Bonifica. Ed è lì, come ha denunciato Luigi Sunseri, deputato regionale del Movimento 5 Stelle, che è andato in scena l’ennesimo episodio di progressione “artificiosa” di carriera. Circa un annetto fa. “Questo governo – è stata l’invettiva, mercoledì scorso, in parlamento – non solo non ha dato attuazione alla riforma dei Consorzi di Bonifica che questa assemblea aveva approvato nel corso della precedente legislatura. Ma, in regime commissariale, ha dato mandato per l’avanzamento di carriera di 19 funzionari diventati dirigenti. Un fatto per il quale l’assessorato all’Economia ha fatto partire un’ispezione nei confronti dell’altro assessorato, quello all’Agricoltura, per l’assoluta mancanza di copertura finanziaria. In barba alla legge – è stato l’attacco nei confronti di Musumeci – anziché diminuire il numero di funzionari e dirigenti, li moltiplica”. A quel punto il presidente della Regione ha abbandonato l’aula, preferendo il silenzio. Poco prima, però, si era esibito nell’ennesima acrobazia: cioè far passare il messaggio che la riforma dei Consorzi di Bonifica – come quella sui rifiuti, in pratica – fosse pronta da un paio d’anni per essere esaminata a Sala d’Ercole. In realtà è stata rispedita in commissione perché presenta rilievi di illegittimità.

Il sistema dei Consorzi di Bonifica, nel 2020, ha pesato sulle casse della Regione per 52,4 milioni di euro. La gestione economico-finanziaria si è rivelata fallimentare ed è stata aggravata da centinaia di contenziosi nei confronti dei lavoratori (precari), alcuni dei quali devono ancora percepire gli arretrati del 2018. Nel tempo, come si evince dal rapporto che Sunseri ha presentato lo scorso luglio all’Ars, è stato incrementato il numero dei dirigenti (per “merito comparativo”, cioè senza concorso, e a tempo indeterminato), con un aumento dei costi di circa 400 mila euro l’anno. Con le variazioni di Bilancio sono stati destinati 900 mila euro al Consorzio di Bonifica n.8 di Ragusa e 2,5 milioni a quello di Palermo. A Ragusa i deputati Dipasquale e Campo, rispettivamente Pd e Cinque Stelle, hanno denunciato “il blocco della tesoreria a seguito dell’ennesima sentenza sfavorevole al Consorzio, che ha come conseguenza l’impossibilità di incassare il contributo regionale per pagare gli stipendi ai lavoratori”. Contributo che ammonta, nel caso specifico, a 9,2 milioni. Al Consorzio di Agrigento ne vanno 13,4, a quello di Palermo 7,6. Uno stillicidio (mentre la Regione sarebbe tenuta a risparmiare anche sulla spesa corrente degli enti vigilati).

Già, ma a che servono i Consorzi di Bonifica? Secondo il governo Musumeci, che lo scrive papale papale nel piano di rientro dal disavanzo allegato all’ultima Finanziaria, i consorzi sono “chiamati alla difesa del suolo, valorizzazione del territorio, tutela delle acque e salvaguardia dell’ambiente”, sebbene – è l’ammissione – “hanno visto ridurre sempre più le proprie competenze”. Da alcune ricostruzioni di stampa, si apprende che a causa di condotte colabrodo e altre problematiche tecniche, oggi si riescono ad irrigare appena 61 mila ettari dei 176 mila potenziali. Il sistema non garantisce un servizio adeguato per i destinatari finali (gli agricoltori) e, al contrario, alimenta sprechi inutili e condizioni incerte per i lavoratori. Un carrozzone come tanti.

Ma di casi borderline se ne trovano a iosa: le sette società e i 37 enti pubblici in liquidazione, ad esempio, assorbono ogni anno 372 mila euro del Bilancio regionale, una cifra pari al costo degli organi amministrativi o dei commissari liquidatori. Poi ci sono alcuni istituti ancora in vita: come l’Irvo (Istituto regionale del vino e dell’olio) che drena la media di cinque milioni l’anno e si permette il lusso di depauperare il fondo previdenziale; o l’Istituto zootecnico, i cui progetti per il miglioramento genetico sono fermi al 2008, ma fino all’anno scorso ha beccato 3,5 milioni. Un altro esempio è l’Istituto di incremento ippico, che però merita un valido distinguo: è quello incaricato della gestione di Ambelia, la patria dei cavalli che nasce a due passi da Militello val di Catania. Il feudo su cui Musumeci sta puntando buona parte delle sue fiches per favorire l’incremento turistico di quest’Isola. Nel complesso, gli enti nell’orbita di palazzo d’Orleans sono 163. I circa 7 mila dipendenti costano 235 milioni l’anno. Spesso, però, queste partecipate “si sono dimostrate – secondo la Corte dei Conti – geneticamente prive di sostenibilità economica”. Vaglielo spiegare a chi le mantiene.