Cominciamo con un filino di retorica. Ma dov’è finita Palermo? Dov’è finita la città dei giardini e dei capricci barocchi, delle delizie arabe e delle meraviglie normanne, la città che i grandi viaggiatori ammiravano con occhi lucidi e insaziabili? Dov’è finita la Palermo felicissima alla quale Ibn Hamdis non aveva voluto strappare per ricordo neanche un fiore di gelsomino? “Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, si limitò a scrivere nel suo diario lo sventurato poeta costretto dai nuovi invasori a tornarsene nella sua Arabia infelice. Dov’è finita la Palermo de “La Sicilie Illustrée”, di quella rivista patinata, tutta scritta in francese, inventata negli anni della Belle Epoque per raccontare al mondo i fasti e le civetterie di una borghesia, come quella dei Florio, che aveva in donna Franca la sua immagine più scintillante e più seducente? Quella gran dama portava addosso il fuoco lucido della bellezza. Ne rimase abbagliato persino Gabriele D’Annunzio che, dopo averla incontrata, non mancò di annotare “la falcata da levriero” con la quale lei amministrava il suo passo e le sue movenze. Un arpeggio di fascino ed eleganza.
Povera Palermo. Quella che c’era non c’è più; e quella che ancora resiste, scivola giorno dopo giorno in una palude di monnezza, prigioniera di un immenso Ucciardone fatto di strade sventrate, di piazze recintate, di quartieri blindati, di periferie stravolte dai bulldozer che cercano di trovare un varco per la linea di un tram o per un nuovo passante ferroviario. Chi la salverà?
A prima vista ti sembra la porta dell’inferno. Anche se il sole fiammeggia cupole e tetti, e lo scirocco ti artiglia per la gola. Ma se alzi lo sguardo dalle cataste di rifiuti o dai cantieri senza fine e torni benevolmente al dialogo e alla tolleranza, ti accorgi che il sindaco Leoluca Orlando non arriva certo a ripetere lo slogan che negli anni Sessanta fu di Salvo Lima – “Palermo è bella, facciamola più bella” – ma non se ne allontana nemmeno troppo. Illustra programmi e provvedimenti amministrativi, annota i problemi, elenca i disastri e, con il periodare suadente del piccolo profeta, puntualmente annuncia che il cambiamento è vivo e lotta insieme a noi, che la salvezza è vicina: questione di giorni e il Rinascimento sarà cosa fatta. La fede, diceva San Paolo, è sostanza di cose non viste e di cose sperate.
Ma quale speranza? La parola richiama il nome che il pittore Caspar David Fiedrich diede ad una nave dipinta mentre stava per affondare in un universo di ghiaccio sul quale prima o poi si sarebbe magari posato, caritatevole, un raggio di sole. La speranza di Palermo invece è imprigionata da tonnellate di spazzatura e dal fumo che, soprattutto di notte, ammorba ogni palazzo, ogni casa, ogni stanza. Trovi roghi a ridosso degli ospedali e delle chiese, al fianco degli alberghi e dei ristoranti. E se non fosse per gli straccivendoli che saettano da un immondezzaio all’altro in cerca di rame, diresti che Palermo è diventata la rappresentazione teatrale del deserto che ormai la avvolge e la mortifica: c’è il deserto delle industrie che non ci sono più e quello dei negozi che hanno abbassato definitivamente le saracinesche; c’è il deserto delle librerie, che hanno ceduto il passo agli intimissimi negozi di mutandine e reggipetto; e c’è il deserto dei mercati popolari, come la Vucciria, che un tempo ispirarono quadri voluttuosi, come quello di Renato Guttuso, e oggi li ritrovi scheletriti, senza voci e senza colori, prosciugati dal tempo e dalla crisi economica, accerchiati dal biancore di supermercati zeppi di surgelati e di luci al neon.
I fuochi che divampano nottetempo dal Cassaro a Ciaculli, da Ballarò a Pagliarelli fino a Settecannoli, non anneriscono solo i quartieri e le borgate della città. Non sfregiano solo i palazzi spagnoleschi di Casaprofessa davanti ai quali Emma Salvo di Pietraganzili, durante l’afflizione della guerra, declamava Goethe in tedesco. Aggrediscono anche tutto ciò che avrebbe potuto riportare Palermo a una soglia minima di civiltà. Prendiamo l’antimafia, sulla quale si è edificata agli inizi la fortuna politica di Orlando e del cambiamento che il sindaco ribelle proponeva. Se restasse ancora spazio per un altro filino di retorica, sarebbe forse il caso di ricordare su quale sangue e quali lutti questa città si era data – non senza fatiche, non senza contraddizioni – una coscienza civile. Si potrebbero ricordare le lacrime versate ai funerali di Giovanni Falcone; o lo strazio che, appena cinquanta giorni dopo, accompagnò alla tomba il feretro di Paolo Borsellino. Ma a che servirebbe? Il fuoco dell’indifferenza e della delusione – ecco l’altro rogo, forse il più devastante – rischia di avvolgere e travolgere anche la sacralità delle memorie che appartengono in ogni caso a questa città. Perché il tradimento di quel martirio non comprende solo il paradosso di un’antimafia piegata alla ragioni di una politica maleodorante, ma ha investito pure, e nella maniera più infamante, lo stesso palazzo di giustizia dove Falcone e Borsellino tentavano con ogni mezzo, di sconfiggere boss di mafia e picciotti di malavita, omertosi silenzi e pelose amicizie. Lì, in quelle stesse stanze, proprio nella cosiddetta sezione antimafia, si è consumato per anni lo scandalo dei beni confiscati: giudici e avvocaticchi, magistrati e commercialisti, si sono avventati su quei patrimoni e su quelle ricchezze con l’avidità delle locuste dopo una una carestia: sequestravano terreni e aziende al primo fruscio di un sospetto e ne affidavano la gestione a parenti, amici e agli amici degli amici. Altro che antimafia: si erano inventati una cosca togata che, con la banalissima scusa della legalità, trasformava quella che era stata l’economia mafiosa in una riserva di caccia per i rampolli della vecchia e parassitaria borghesia palermitana, la stessa che gattopardescamente, aveva omaggiato al Baby Luna l’elegantissimo Stefano Bontade, boss di Villagrazia e che subito dopo si era adattata senza scrupoli alla prepotenza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, sanguinari boss dei corleonesi.
Chi fermerà i roghi della dissoluzione, chi fermerà il disincanto senza ritorno di un intellettuale come Aristide Carabillò che, da sociologo e francesista, ti rivolge la stessa domanda che Louis Sébastien Mercier ripeteva con un gemito davanti alle rovine di Parigi: “Que deviendra Palerme?”. Già, che cosa diventerà questo meraviglioso “sommario dell’universo” che gli svevi e gli arabi e poi i normanni e poi gli spagnoli e poi i borboni hanno edificato attorno a Monte Pellegrino, tra la Conca d’Oro e il mare dell’Acquasanta, tra Monreale e la scogliera dell’Addaura?
“Viva Orlando e santa Rosalia”, gridavano trent’anni fa i questuanti e i pagnottisti, gli intellettuali e i muzzunara, esaltati al solo pensiero di avere a Palazzo delle Aquile il ragazzo col ciuffo che agitava ad ogni passo il drappo accattivante e ruffiano del cambiamento. Oggi, dopo un quarto di secolo, ’u sinnac’ollando è ancora seduto lì, sulla poltrona più alta di palazzo delle Aquile. Ma del cambiamento sbandierato per trent’anni, Palermo ha avvertito solo vaghi odori. Vaghi vapori di cipria e profumi, sparsi qua e là per schermare la stessa monnezza, gli stessi roghi, le stesse ferite degli anni tremendi.
Riuscirà il vecchio Orlando, che può legittimamente vantarsi di anticipato tempi e metodi del populismo, a imporsi in questa nuova savana della politica e ad addentare i nuovi demoni della propaganda, da Matteo Salvini a Luigi Di Maio? Riuscirà a riprendersi la scena e a riacciuffare la bandiera del cambiamento passata già in altre mani? E’ probabile. Palermo, a parte lui, non si trovano molti leoni. Gli unici di cui ci si ricorda sono quelli, “lenti e attoniti”, intravisti in una notte di sogno da Bruno Barilli, poeta e librettista, forse suggestionato dalla dicitura frontale del tram che dal fiume Oreto arrivava fino a piazza Leoni, alle porte della Real Tenuta della Favorita. Erano belve dal “crine fosforescente” che si svegliavano al crepitio delle Pleiadi. Erano belve fatte apposta per notti d’amore e d’azzardo, per notti di soave delirio; per le notti leonine di una Palermo immaginaria, calda e arabeggiante. Ma soprattutto bella, incantata e senza monnezza.