Le risposte che Nello non si dà

Il presidente della Regione, Nello Musumeci, nella cornice di Santa Maria dello Spasimo per la convention di sabato scorso

Dal racconto al raccolto è un attimo. Nella convention di sabato allo Spasimo (“Parleremo di tutto, ma non di campagna elettorale” era stata la premessa), Nello Musumeci ha trovato il tempo per occuparsi del primo – il racconto – attraverso le dichiarazioni dei suoi assessori; ma soprattutto ha buttato le reti per garantirsi il secondo – il raccolto – facendo ricorso alla parabola del contadino: “Chi semina, raccoglie. Non siamo così generosi da aver sputato sangue per anni e consentire al primo arrivato di raccogliere i frutti del nostro lavoro”. Dietro queste parole si intravede il naturale orgoglio di chi ha lavorato (“Oggi siamo riusciti a spiegare solo il 40% delle cose fatte in tre anni”), ma anche la naturale predisposizione del politico di razza, che non accetta un’uscita di scena mesta, dopo appena cinque anni: sarebbe come ammettere il fallimento. Ipotesi che Musumeci non considera, forse perché è davvero convinto di aver fatto il massimo, e non serviranno le sceneggiate dell’opposizione, ma nemmeno i dubbi all’interno della maggioranza, a farlo recedere: “Perché non io? Perché sono rigoroso? Perché chiedo i carichi pendenti a chi assume un ruolo nel sottogoverno? Perché tratto i partiti in base al loro peso specifico?”.

Per il presidente della Regione, che rimarca la sua posizione rigorista e intransigente, anche nei confronti della mafia, tutto sembra ridursi alla solita “schiena dritta”, alla classica “persona perbene”, cui andrebbe garantito – per diritto divino? – di essere in campo e di giocarsela. Ma ci sarebbero mille modi per rispondere alla domanda che Musumeci indirizza a se stesso e ai suoi alleati: “Perché non io?”. Ad esempio, perché buona parte delle promesse fatte in campagna elettorale non sono state realizzate. Hai voglia a parlare di stordimento per “le cose che abbiamo fatto”, se poi le più importanti riforme si sono arenate nel parlamento regionale. A causa, va precisato, di una carenza numerica che lo stesso governatore, o chi per lui, non è mai riuscito a riequilibrare. Dando fiato, al contrario, a veti incrociati e voti segreti. Musumeci è convinto che nei prossimi mesi alcune riforme – dai rifiuti alle Ipab, passando per i Consorzi di Bonifica – vedranno la luce. Al momento, però, la Regione non è ancora riuscita a recepire la legge nazionale sull’edilizia, mentre il ddl sulla governance dei rifiuti, il fiore all’occhiello di questa amministrazione, è rimasta lettera morta. Per non parlare di dirigenza e pubblico impiego: anche qui siamo in attesa di una riforma.

Poi ci sono le leggi Finanziarie e i pastrocchi contabili fatti emergere a tutti i livelli: governo centrale, Consulta, Corte dei Conti… Partiamo dalle prime: le ultime due manovre si sono rivelate, fin qui, di cartone. Il ricorso a fondi extraregionali per superare i problemi di cassa, è stato lungo, farraginoso, impossibile. I decreti hanno tardato, e molti dei ristori promessi con la “Finanziaria di guerra” (del 2020) sono parsi farlocchi. L’unico strumento di sostegno economico, il Bonus Sicilia, ha prodotto il fallimento del click day e una contribuzione a pioggia per 60 mila azienda (per 2 mila euro cadauna). Inoltre, la misura non è stata rinnovata. Settanta dei cento milioni stanziati per i buoni spesa alle famiglie in difficoltà sono svaniti di fronte a un iter di rendicontazione che i Comuni hanno giudicato complesso. I voucher del turismo sono partiti con un anno di ritardo. L’ultima manovra lacrime e sangue, invece, non ha previsto un euro di ristori. E molte delle operazioni avallate dal governo e dall’assessore all’Economia, Gaetano Armao, non hanno trovato sponda in parlamento: la norma sui prestiti della BEI è stata azzannata, il taglio delle pensioni degli ex dipendenti idem. Qualsiasi tentativo di riqualificazione della spesa, sancito dall’accordo Stato-Regione, non si è materializzato. I carrozzoni sono tali e quali a prima. Sono temi, questi, di cui allo Spasimo non s’è fatta menzione.

“Perché non io?”. Forse perché, ancora una volta, il giudizio di parifica della Corte dei Conti ha riportato alla luce le fragilità del Bilancio della Regione. Musumeci non ama troppo l’argomento, e ha dato carta bianca al suo vice. Ma di fronte ai ceffoni ben assestati delle Sezioni riunite e del procuratore generale, Pino Zingale, un governatore non dovrebbe limitarsi a dire “che la Regione ha voltato pagina nella gestione degli equilibri di bilancio e recuperato credibilità finanziaria”. Carta canta. E i giudici hanno messo in evidenza “una molteplicità eterogenea di aree di criticità finanziaria, che pongono dubbi di attendibilità sull’esatta stima del risultato di amministrazione”. E’ emerso un nuovo disavanzo da 449 milioni, il Conto economico e lo Stato patrimoniale sono stati bocciati. Credibilità de che? E poi c’è l’incertezza sotto il profilo legislativo: nel 2019, anno a cui si riferisce il rendiconto parificato, la Corte dei Conti ha segnalato che un terzo delle leggi pubblicate in Gazzetta sono state impugnate dal Consiglio dei Ministri. Le dimostrazioni, però, arrivano fino ai giorni nostri: il governo Draghi ha stoppato dieci articoli dell’ultima Legge di Stabilità, mettendo in discussione – soprattutto – la norma sulla stabilizzazione di 4.571 Asu. Un incidente di percorso imperdonabile, che arriva un anno dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che aveva cassato un tentativo di stabilizzazione, cioè il passaggio di altri precari (gli ex Pip) nel bacino della Resais. Altri destini incerti, altre ferite che non si rimarginano. Altre asinerie brutalmente punite dalle autorità competenti.

Eppure, in fondo a una legislatura che Musumeci ricorderà per aver schivato le macerie lasciate da Crocetta, per il tentativo – strenuo – di ridare dignità alle istituzioni (“Non vedrete mai una mia foto al mare”, ha detto allo Spasimo), per una giunta di “persone perbene che lavora giorno e notte”, un avviso di sfratto pende sulla sua testa. “Se il centrodestra dovesse dire con chiarezza che non posso essere io il candidato è chiaro che non sarei sordo e cieco. Farei tre passi indietro, ma qualcuno mi deve spiegare perché”. Le assenze di sabato testimoniano che qualcosa si è rotto. Che difficilmente si potrà ricomporre. A pelle si percepisce. A parte la presenza d’ufficio di Gianfranco Micciché, che ha detto cose già note (“Non credo ci sia un governo migliore di questo”), gli altri hanno disertato. L’unico fiore nel deserto, il coordinatore di FdI per la Sicilia occidentale (Giampiero Cannella), non basta a ricucire il rapporto con la Meloni, che lunedì scorso alla presentazione del libro a Catania, lo ha gelato sulla ricandidatura. Tanto meno con Raffaele Stancanelli: dal giorno del congresso di Diventerà Bellissima, all’inizio del 2019, fra i due è calato il gelo. Che resiste pure nella calura estiva.

Musumeci dice e si contraddice anche sui partiti: da un lato “li rispetto”, dall’altro “sono i nemici delle istituzioni”. Da un lato “ci confrontiamo”, dall’altro “non sono più loro a decidere”. A pagare più degli altri questo atteggiamento ondivago è stata la Lega, dopo il matrimonio fallito di un’estate fa. Salvini e Minardo si fidano poco: pretendono di poter esprimere – loro prima di altri – il prossimo candidato. E’ così che funziona a livello nazionale: ci si siede attorno a un tavolo, si valutano le alternative, e si decide fra alleati. Le fughe in avanti, a Musumeci ne ha già fatte una vagonata, vengono viste con sospetto. Talvolta con disprezzo. Sulla stessa linea gli Autonomisti di Di Mauro (con Raffaele Lombardo momentaneamente sullo sfondo), che nell’ultimo periodo – assieme alla Lega – hanno disertato alcuni dei pochi vertici convocati dal governatore coi segretari. Persino Saverio Romano, al centro, ha il mal di pancia: “Sono deluso dalla guida del centrodestra, che di questo passo farà fatica a ritrovarsi”. A ognuno di loro, nelle private stanze, Musumeci farebbe bene a chiedere: “Perché non io?”. Riceverebbe in cambio risposte argomentate, certamente confutabili. Il chiacchiericcio, fin qui, è un chiaro sentore che qualcosa non funziona.

Ma c’è un ultimo, grande motivo per cui Musumeci dovrebbe valutare con attenzione: la tenuta del suo stesso movimento, che il disimpegno politico di Ruggero Razza rischia seriamente di compromettere. L’assessore regionale alla Salute, tornato in campo da poco, ha spiegato allo Spasimo che “mi occupo solo di amministrazione perché ho abbandonato la suggestione della politica. Altrimenti mi sento in colpa con me stesso e verso mio figlio”. Ma chi organizza gli eventi di Musumeci, se non Razza? Chi lo agevola nel rapporto coi partiti? Chi gli fa da spalla nei momenti di difficoltà? Chi gli apparecchia la campagna elettorale? “A Razza – ha spiegato il presidente a margine della kermesse – ho sempre detto che non esiste amministrazione senza politica. Dice che non vuole occuparsene? Vuol dire che non mi ha ascoltato, anche questa volta”. Avrà tempo per fargli cambiare idea, forse. Ma è solo un paragrafo, limitato, di una lista di buoni motivi che potrebbero portare Musumeci a ribaltare la domanda iniziale e chiedersi: “Perché proprio io?”.

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