Non c’è partita: la parola più abusata in Sicilia nel 2019, è “Ambelia”. Il regno dei cavalli che Musumeci ha riqualificato, a un passo dalla sua casa di Militello. Una vecchia stazione equina caduta in disgrazia, a cui il presidente della Regione ha dedicato energie e risorse (circa una decina di milioni). Ci ha portato anche la Fiera mediterranea del Cavallo e la Coppa d’Assi, due manifestazioni costose che, nelle intenzioni di palazzo d’Orleans, potrebbero contribuire all’espansione turistica dell’Isola. “Ambelia”, però è il nome di una località, quindi hors catégorie, e merita una menzione a parte rispetto alla classifica ufficiale, quella seria.
Per questo la parola dell’anno appena concluso è “disavanzo”. Poteva e doveva esserlo in passato, magari nel 2015, quando la Regione avrebbe dovuto accorgersi dell’iscrizione a Bilancio di poste “sospette”. Residui attivi, non più esigibili, che dovevano essere cancellati e spalmati sulla lunga distanza (magari trent’anni), in osservanza al decreto legislativo 118. Bisognava farlo prima, e forse ci saremmo evitati il dramma di oggi. Forse. Ma questo termine, entrato nel gergo siciliano con preoccupante regolarità, continuerà a turbare chissà per quanto – almeno dieci anni – i sogni di gloria della Sicilia e del suo presidente, Nello Musumeci. Che riferendosi al futuro, ha spiegato: “Ancora un paio d’anni di sacrifici, poi sarà tutto in discesa”. Ma si sa che a Natale prevale l’ottimismo.
Il disavanzo della Regione – non si parla di debiti veri e propri (quelli ci sono pure e ammontano a 8 miliardi), ma di soldi che non si possono spendere – è stato certificato in poco più di due miliardi dalla Corte dei Conti. E ha quasi costretto il governo ai tagli di Capodanno, altro che botti. Quasi, perché con un intervento in zona Cesarini il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto salva-Sicilia (e salvadanaio) e concesso la spalmatura in dieci anni di questo ammanco consistente. Ma è tutto fuorché una festa. La Regione vivrà di limitazione della spesa. In estate ne aveva avuto il sentore ma poi è giunto, implacabile, il giudizio di parifica della Corte dei Conti.
Ed eccola la seconda parola: “parifica”. Dal vocabolario Treccani: “rendere o riconoscere pari, cioè ugualmente valido”. Se n’è parlato a lungo, ma quest’anno è tardata ad arrivare di circa sei mesi. La magistratura contabile, infatti, ha atteso che il governo regionale rispondesse ai suoi rilievi e predisponesse, a un passo dal Ferragosto – ci vanno sempre di mezzo le feste – un nuovo bilancio consuntivo per il 2018. Non che la situazione sia migliorata. Il verdetto dei giudici, infatti, è stato mortifero. E il 13 dicembre, oltre a determinare un disavanzo da due miliardi, ha ricordato alla Regione di aver fatto male i conti, e talvolta di non averli neanche fatti. La manovra finanziaria è stata giudicata “approssimativa”, il governo inadempiente e gli obiettivi mancati. Bel quadro di Picasso.
In un 2019 asfittico in tema di riforme, tutte le questioni più importanti sono legate a questioni finanziarie. E un altro termine molto in voga, dalle parti di palazzo dei Normanni, è senz’altro “collegato”. Il “collegato” alla Finanziaria non è altro che una Finanziaria-bis, ossia una manovra parallela alla Legge di Stabilità (che così diventa più snella) in cui far confluire più voci di spesa, quelle che aggradano ai singoli deputati (in gergo: le mance). Musumeci ha escluso che ce ne siano nella prossima Manovra, che verrà approvata al termine dei due mesi di esercizio provvisorio. Ma l’anomalia del 2019 è che di “collegati” alla Finanziaria l’Ars ne aveva varati ben cinque. Alla fine ne ha approvati appena tre: quello generale, quello sullo sblocco delle assunzioni (nell’arco dei prossimi tre anni) e l’ultimo, venuto fuori dalla V commissione, ma senza un euro di stanziamento.
Avrebbe dovuto prevedere una pioggia di finanziamenti – come da tradizione per l’ex Tabella H – ma si è tutto arrestato non appena un’operazione-verità condotta dai dipartimenti dell’assessorato all’Economia, ha portato a galla un buco da 400 milioni di euro e Musumeci ha consigliato a Micciché, in via prudenziale, di sospendere le leggi di spesa. E’ stato il momento più basso dei rapporti fra il presidente dell’Assemblea e quello della Regione (era settembre): il primo si era adirato col secondo, e con Armao, per non aver comunicato nei tempi le proporzioni della crisi finanziaria che oggi ci portiamo sul groppone.
Ma le fondamenta di questo muro, che ha separato a lungo palazzo dei Normanni e palazzo d’Orleans, le ha poste proprio Armao, assessore all’Economia che Forza Italia, il suo stesso partito, ha smesso di amare troppo presto. Non solo per la sua condotta – poco irreprensibile – sul piano politico. Ma anche su quello istituzionale. Oltre al bilancio, ha fatto scuola il pasticcio sulla password mancante – è “password” la quarta parola del 2019 – che sarebbe servita, dieci anni dopo, a “scardinare” i server di Sicilia Patrimonio Immobiliare, una società ormai in liquidazione, per leggere i dati del censimento effettuato nel 2009, e da quel momento inutilizzato. Peccato che sia costato la bellezza di 110 milioni di euro. Dopo un lungo tira e molla – coi Cinque Stelle da un lato, con il liquidatore della Spi e la Corte dei Conti dall’altro – l’assessore, nel giro di una settimana, ha ritrovato il codice per leggere il lavoro affidato all’imprenditore di Pinerolo di Ezio Bigotti. Ma all’interno dei file non c’era nulla: a parte una serie di dati “scaduti” e per questo inservibili. Lo scandalo più grosso della recente storia siciliana.
E Bigotti, che più volte ha avuto a che fare con la giustizia, ci conduce dritti alla quinta parola dell’anno: cioè “avventuriero”, “chi va in cerca di fortuna o facili guadagni” (cit. Treccani). Lo è stato l’amministratore delegato della Spi, che aveva delle società off-shore in Lussemburgo. Ma anche gli imprenditori, o pseudo-tali, che hanno provato a incunearsi nei palazzi della Regione per avere benefici personali. La prova di quanto la politica sia una preda facile per incalliti faccendieri, l’ha offerta Paolo Arata, ex parlamentare di Forza Italia e consulente all’Energia della Lega di Salvini, che stando alle inchieste avrebbe provato a curare gli affari di Vito Nicastri, re dell’eolico, pluri-inquisito. Uno degli uomini che avrebbe favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro. Arata veniva a bussare alla Regione, alle porte degli assessorati, per garantire benefici al suo “cliente”.
Ma altri avventurieri da strapazzo si sono fiondati come sciacalli sui resti del Palermo calcio, nell’anno più nero della storia… rosanero: da mr. Richardson, il presidente inglese che non ha mai investito un euro, e a capo di una cordata rimasta fantasma; passando per i fratelli Tuttolomondo, Salvatore e Walter, artefici della radiazione del vecchio club, quello legato a Zamparini. Prima dell’ingresso in scena di Dario Mirri, che sta tentando faticosamente di risollevare le sorti del pallone.
Ma ci sono un paio di parole che solo di straforo sono entrate nel linguaggio politico di questo 2019, e magari torneranno presto in agenda. La prima è “rimpasto”, che Musumeci aveva messo in calendario quest’estate, prima di rinviarlo sine die. “Non serviva” ha sentenziato il governatore, spostando il nuovo orizzonte temporale del suo governo da gennaio al giugno prossimo. La seconda, più che una parola, è una locuzione: “beni culturali”. Cioè l’assessorato rimasto sguarnito dopo l’incidente aereo che ci ha privato del professor Sebastiano Tusa. Musumeci ha tenuto per sé l’interim, pur avendo più volte pensato a una guida tecnica. Magari un commissario.
Ecco, pensandoci, anche “commissario” è una parola cliccatissima in Sicilia: c’è il commissario invisibile del Pd, il brindisino Alberto Losacco, mandato da Roma dopo la destituzione di Faraone. C’è quello della Lega, Stefano Candiani da Tradate. Lo stesso Musumeci è stato e continua ad essere commissario di più cose, come dell’emergenza rifiuti (e potrebbe diventarlo della superstrada Ragusa-Catania, da trent’anni un’opera incompiuta). Eppure continua a reclamare commissari a destra e a manca: l’ultimo è quello per la viabilità, che Roma ha individuato nell’ingegnere Gianluca Ievolella. Manca solo un commissario per la Regione, invocato a più riprese da Pietrangelo Buttafuoco per risolvere i mali della Sicilia. Certificherebbe il fallimento definitivo della politica. Buon 2020.