Come in uno di quei film del genere che una volta si chiamava «commedia di costume», quelli dei baffetti e delle coppole, degli scialli neri e di «bottana». Tolti gli orpelli arcaici, la cadenza è sempre quella sicula, un po’ da commedia, per l’appunto, un po’ da macchietta quando non si scade nelle farsa. Fare il 21% di share alle tre del pomeriggio con un ultrasettentenne che arriva dalla Trinacria e cerca un’anima gemella pare facile però bisogna studiarci. Lo scapolo o vedovo in questione rassicura: «Maria, ti giuro, sono un giovanotto, funziona tutto, è tutto a posto». E giù a far capire, come non si fosse capito, che non allude al cervello. Altro giro di telecamera, altra corsa verso la speranza di un domani diverso, ma l’inflessione dialettale non cambia: «Una vita disgraziata, di dolori, di sacrifici, di rinunce», rievoca mestamente lei che arriva dalla costa sudorientale dell’Isola, trucco e parrucco perfetti. Per cui, adesso che ha varcato la soglia dei 70, mai visto un film al cinema, mai una volta a teatro, mai una passeggiata sul lungomare, al ristorante solo per feste di battesimi, comunioni o matrimoni altrui, «non è che voglio fare la badante a qualche vecchio, se sono venuta qui ne voglio uno ricco». Risate in studio come ai bei tempi, in sala, quando parlavano Saro Urzì o Monica Vitti. E’ la Sicilia che fa audience a «Uomini e donne over», da Maria De Filippi. Commentatori (Gianni Sperti e Tina Cipollari: capirai, gli Accademici di Francia) e pubblico rumoreggiano, urlano, involgariscono di sottolineature grevi le situazioni. Ma per l’audience queste ed altre nefandezze. Chissà che magari qualche attempato pretendente non diventi perfino un personaggio popolare di piccolo cabotaggio: per i disco-pizza o le inaugurazioni di centri commerciali non sempre si trovano soldi per le “scandalose” nipoti di Fabrizio De Andrè o per le forme procaci di Manuela Arcuri. Cinquecento o, chissà, magari mille, purché sull’unghia, vanno benissimo.
Se resti nell’orbita di Fascino, la potente società della potentissima De Filippi, sceso dalla giostra di «Uomini e donne» puoi trovarti a salire di sera su quella di «Temptation Island», il reality il cui motto potrebbe essere «l’uomo e la donna non sono fatti d’acciaio». Ovvero metti qualche morto o morta di fama (con la “a”) che armi e bagagli si trasferisce in un resort esotico con il o la partner (quasi sempre borghesi piccoli piccoli questi ultimi, sconosciuti ai più se non per qualche foto di rivista di gossip o su Instagram), viene separato dal fidanzato o fidanzata ufficiale ed entrambi messi strenuamente alla prova da un drappello di tentatori e tentatrici (tra questi, qualcuno uscito per l’appunto dal cast del gioco pomeridiano della “caccia” all’altro sesso, quello giovanile però). Le scene madri vanno da brevi sedute di psicoanalisi da apericena (vergate da un nugolo di autori che non sanno scrivere con la mano destra né con quella sinistra e imparate impacciatamente quasi a memoria dai concorrenti) e violente distruzioni di suppellettili. Che volete che sia la disintegrazione di un computer a bordo piscina rispetto ad un’audience anche qui lusinghiero?
Ha arrancato un po’ al debutto stagionale invece D’Urso, regina delle nefandezze acchiappascolti, che ha già esordito con il suo live serale spostato alla domenica. Parzialmente penalizzata forse perché non ha trovato un bravo analista che la liberi dall’ossessione compulsiva del caso Pamela Prati e del Cavaliere Misterioso Mark Caltagirone anche in questo esordio piatto forte del menù. Lei ripete come un mantra: «La nostra è stata un’inchiesta giornalistica, non un semplice approfondimento di gossip». Il pubblico forse è un po’ stufo della lunghissima telenovela ma gli altri l’hanno talmente presa sul serio che perfino il prode Massimo Giletti pare aprirà la nuova stagione di «Non è l’Arena» discettando di Pamelona nostra e delle sue mitomanie sentimental-matrimoniali, ficcandole magari tra un rigurgito salviniano e un ruttino renziano. Intanto però, quest’anno la D’Urso ha istituzionalizzato la versione 2.0 della vecchia “ruota” dei conventi delle monache dove venivano depositati i neonati abbandonati dentro le ceste di vimini. Ha affidato infatti una rubrica fissa a Paola Caruso (una ex “bonas” di un gioco a quiz di Bonolis: pensate un po’…) e alla sua mamma biologica Immacolata Meleca detta Imma che nella scorsa edizione del programma scoprirono, non senza fremiti personali trasmessi in diretta all’utenza catodica, di essere legate da vincoli di sangue dopo un accurato test del Dna. Bene, quest’anno le due aiuteranno altre persone come loro in un mix di genitori biologici e adottivi, di abbandoni e ritrovamenti, di figli ripudiati e agnizioni, magari – chissà – scopriranno vecchie Bibbiano sommerse, una tv da orfanelli di Sant’Antonio e mutilatini di don Gnocchi, insomma. Tanto, tutto quanto ieri faceva show, oggi fa infotainment.
A proposito di informazione, d’altronde, anche questa antica, un tempo nobile arte, ci mette il carico da 11 nella deriva in pollici. Metti alcune rubriche di Retequattro che ha sempre gli studi a Cologno Monzese ma potrebbe tranquillamente spostarli a Pontida per trasmettere per esempio «Dritto e rovescio» di Paolo Del Debbio con un Salvini accolto in studio tra standing ovation, strette di mano, batticinque e poco ci voleva gli tirassero i peluche ma si sono limitati ad applausi che nemmeno Morandi a »Canzonissima». Oppure con le urla, le invettive, gli anatemi di Mario Giordano mai «Fuori dal coro» così come di questi tempi che, in mezzo a una platea anche qui annuente come una volta i cagnolini esposti sul lunotto delle auto e ovviamente osannante, brandisce minaccioso come un manganello i fogli della scaletta, abbatte con maschia risolutezza i cartelli illustrativi, s’incazza a metà tra Grillo quando faceva il moralizzatore nei palasport e lo sproloquiante Sgarbi quando ancora il popolo degli astanti senza diritto di replica lo temeva. Purtroppo a Giordano non lo aiuta la voce: dovrebbe chiedere quella che Alberto Lionello prestò a Peter Finch nel doppiaggio di «Quinto potere» («sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!»). Ma sia Lionello che Finch, altra pasta entrambi, sono morti da un bel pezzo.