C’è stato un tempo per il dibattito; ce n’è uno per la stasi. La differenza fra Musumeci e Schifani è che il primo, con un’agenda politica incerta e con alcuni cattivi consiglieri a indicargli la strada, aveva regalato alla Sicilia qualche momento di dialettica aspra, scandita da vari episodi: uno su tutti, la forte contrapposizione, a tratti intollerabile, con l’Ars e con Gianfranco Micciché, che quel parlamento lo guidava. Renato Schifani, invece, ha provveduto a sciogliere le tensioni anestizzandole; ha placato gli oppositori escludendoli, e, infine, ha vanificato il ruolo dell’Assemblea non producendo una sola legge che consentisse all’aula di riunirsi e discuterne.

Il “non c’è carne al fuoco” pronunciato da Gaetano Galvagno, attuale inquilino di Palazzo dei Normanni, è l’unico picco in otto mesi di legislatura. E’ l’unico sussulto di fronte al dolce far niente di una squadra di assessori che – forse per questo, o magari per altro – è finita coi riflettori puntati addosso. Sono almeno quattro le pedine sotto osservazione, di cui uno, Marco Falcone, per non essere più in linea con gli umori e le strategie del presidente della Regione. L’ennesimo rancore, insomma.

Musumeci, a differenza di Schifani, viveva meno di rancori. Prendeva calci negli stinchi e provava a darne. C’era il senso della sfida, quello col presidente dell’Ars, che l’ha portato più volte a sbarellare: come quella volta che abbandonò i toni da fascista per bene per scagliarsi contro i “sette scappati di casa” che “vorrebbero intimidirmi”. Si riferiva a deputati del centrodestra che non gli avevano accordato la preferenza durante la votazione dei grandi elettori da mandare a Roma per eleggere il Capo dello Stato. Provò a demolire i ‘franchi tiratori’ che, in sede di dibattito sulla Finanziaria, cassavano senza pietà – e come forma di ritorsione? – le ricette del suo governo; puntò persino Claudio Fava, ex presidente della commissione Antimafia, per non aver favorito l’approvazione della riforma sui rifiuti, privilegiando – a suo dire – il monopolio dei privati.

A volte l’atteggiamento di Musumeci è culminato in uno show poco consono alle richieste dei siciliani, ai buoni rapporti istituzionali – d’altronde non era facile contenere le percussioni del nemico Gianfranco – al mantenimento delle promesse elettorali: “Mai più esercizi provvisori”, si era spinto a dire, e ne arrivarono cinque di fila. Ma il governo, con l’eccezione di un breve tira e molla con la Lega (già si scaldavano i motori per la campagna elettorale, e Salvini era più ingordo che mai) gli si strinse intorno senza mai lasciarlo. Sostenendolo fino all’ultimo errore, ché tanto sbagliavano tutti. Musumeci aveva accanto quelli del ‘cerchio magico’, che sbucarono come funghi nell’esecutivo: dai fedelissimi Cordaro e Falcone, passando per i più spregiudicati Razza, Messina e Armao, che ne influenzarono profondamente le decisioni. Senza mai scansarsi, senza mai ammettere gli errori.

Non erano grandi esempi di trasparenza e rigore amministrativo. Uno ha spadroneggiato nella sanità; un altro nella gestione dei conti pubblici; l’ultimo al Turismo. Hanno avuto carta bianca e hanno prodotto scandali che si protraggono fino ai giorni nostri. Basti vedere la profonda incertezza bilanci della Regione (coi magistrati che hanno lasciato in sospeso la parifica dell’ultimo rendiconto); il silenzio inquietante sui fatti dell’Oasi di Troina (diventata, a un certo punto, una privativa di Diventerà Bellissima); o la spregiudicata voracità con cui è stato gestito il portafogli del Turismo. Oggetto, quest’ultimo, di inchieste giudiziarie e amministrative: persino la commissione UE ha minacciato di bloccare i pagamenti relativi al programma SeeSicily. Musumeci, da uomo tutto d’un pezzo, non è riuscito a gestire una questione morale che lentamente gli è scivolata fra le mani. Non ha rimesso a posto dopo le briciole sparse in giro dai suoi assessori di punta. Ma quanto meno l’azione di governo era avversata, e il dibattito stimolante.

Oggi, per l’effetto anestesia di cui sopra, è sparito il governo – non si ha notizia di una sola legge che possa incidere sulla vita di 5 milioni di siciliani – ed è sparito pure il parlamento. Opposizione compresa. Una volta c’erano le battaglie di Pd e Cinque Stelle, che avevano costituito un blocco unico all’Ars e che avevano costretto Razza, ad esempio, a difendersi in aula dallo spauracchio di una mozione di sfiducia per non aver “svolto in maniera adeguata le sue funzioni di indirizzo e coordinamento della programmazione sanitaria e dell’assistenza territoriale ed ospedaliera per fronteggiare la pandemia”. Oggi, le iniziative dell’opposizione si riducono a meri atti ispettivi, come interrogazioni e interpellanze, che prima di essere discusse cadono in prescrizione (nel senso che vengono discusse quando i problemi non sono più attuali). Mentre persino le mozioni di censura – ne fu annunciata una contro Scarpinato per i fatti di Cannes – restano rinchiuse nei cassetti. E taciute.

De Luca è sparito sotto il sole di Taormina, in altri affari affaccendato. I grillini hanno perso la verve dei giorni migliori, nonostante la richiesta di una seduta pubblica all’Ars per riaccendere l’attenzione sugli sprechi di SeeSicily. Ma va peggio a quelli del Pd: Schifani ha anestetizzato anche loro. Dopo il mega inciucio sulla Finanziaria, che ha permesso a Sala d’Ercole di approvarla in tempi record, ogni richiamo al buon governo pare una pantomima dettata dal gioco delle parti. All’indomani della sconfitta alle Amministrative, il segretario regionale Barbagallo ha chiesto di occupare palazzo dei Normanni parlando dell’imbarazzante immobilismo dell’Assemblea. “È talmente grave che verrebbe voglia di occupare l’aula per farla uscire dal pantano in cui è piombata”. Gli replicò subito Catanzaro, attuale capogruppo dem: “Se Barbagallo volesse occupare un Parlamento, più che l’Ars, sarebbe opportuno occupare quello di Roma”. E ha aggiunto: “Non ci piace l’opposizione demagogica e urlata. Sulle battaglie, come denunciare i misfatti del governo sul Cas, facciamo sentire la nostra voce. Abbiamo dato un enorme contributo alla prima finanziaria”. Come dimenticarlo.

Senza un’opposizione puntuta, anche il governo e Schifani perdono ritmo. Anzi, non l’hanno mai trovato in otto mesi. Se un giorno si parlava delle pressioni di Musumeci, che arringava contro i deputati ostili e decideva di non tornare più in aula fino all’abolizione del voto segreto, oggi a tenere banco è il ruolo giocato da Mimmo Turano alle elezioni comunali di Trapani. Se una volta l’obiettivo era stanare Armao di fronte ai trucchi del bilancio, più volte segnalati dalla Corte dei Conti, oggi gli assessori saltano le interrogazioni in aula per palese impreparazione. Nessuno o quasi conosce i loro volti. Se prima le leggi venivano impugnate malamente da Roma, oggi non ci sono più nemmeno leggi da impugnare: perché il governo non ne propone, e il parlamento non ne approva (al massimo si limita a pensarle, come accade per le province). L’unico aspetto su cui Schifani potrebbe ancora incidere è il capitolo degli scandali, a cominciare da Cannes. Ma si guarda bene dal contrastare gli usi e i costumi di Fratelli d’Italia. Se ti assale un pizzico di nostalgia pensando a Musumeci e a quelli del suo “cerchio magico”, significa solo una cosa: che questo nuovo corso magari non sarà così dannoso, ma è francamente inutile.