Ogni tanto il vento delle buone cose spira anche su Palermo. I “Cento anni”, celebrati dalla Fondazione Federico II a Palazzo dei Normanni sono stati un’occasione preziosa per rileggere il garantismo di Leonardo Sciascia e la sua battaglia perenne, instancabile, sanguigna per una giustizia giusta. Silvano Nigro ed Emma Bonino, Giovanni Fiandaca e Fausto Giunta hanno scandagliato come meglio non si poteva le posizioni assunte dal grande scrittore sul caso Tortora e sul caso Moro, fino al suo rapporto personalissimo con Marco Pannella e l’universo radicale. Ma c’è un capitolo minore, sul quale forse bisogna insistere ancora ed è quello che raggruppa gli scritti attraverso i quali Sciascia, grande sacerdote della verità e della ragionevolezza, cerca di smontare le imposture del potere. E’ il percorso che, a mio avviso, finisce per illuminare meglio l’opacità – la tetraggine, stavo per dire – del momento in cui siamo venuti a trovarci. Un momento di grande disagio non solo per le istituzioni ma anche e soprattutto per il cittadino costretto ad assistere a una crisi senza precedenti della magistratura e, purtroppo, anche dell’antimafia. Paradossalmente è in crisi anche il giustizialismo, quel populismo manettaro che negli ultimi anni ha tentato di sostituire lo stato di diritto con la gogna, con la criminalizzazione dell’avversario, con le sentenze affidate alle piazze, con il clima torbido dei processi sommari o, come si suole dire, della giustizia sostanziale.
Sciascia si era divertito a smascherare con anni di anticipo tutte queste imposture; e a cercare, tra le pieghe della civiltà letteraria, le storture di un “sistema” che appariva distorto già molto prima della comparsa, sul palcoscenico dello scandalismo nostrano, di Luca Palamara e delle sue trame correntizie dentro il Consiglio superiore della magistratura. Prendiamo l’entusiasmo con il quale si adopera per pubblicare “Il procuratore della Giudea” di Anatole France. Il libro era stato scoperto da Joyce, ed era diventato – lo racconta Silvano Nigro nel suo ultimo libro – un classico dell’inavvertenza storica. Sciascia volle fortissimamente sottolineare la smemoratezza atona di un amministratore della giustizia. Di Pilato, appunto. “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?”, gli chiese Elio Lamia. “Gesù il Nazareno? No, non ricordo”. Sciascia tradusse quel racconto e lo pubblicò, nel 1980, nella collana “La memoria” di Sellerio. Ne fece un apologo e una apologia dello scetticismo, della distanza siderale tra chi giudica e chi viene giudicato. E lo mise in campo per una delle sue battaglie civili, risultando “forse particolarmente salutare in un momento in cui muoiono le certezze al tempo stesso che di certezze si muore”.
Altro libro che continua a divertirmi per il gioco di ombre tra verità e miscredenza, è il “Consiglio d’Egitto”, apologo, quello sì, di una impostura che attraversa la storia, la chiesa, il potere in tutte le sue manifestazioni, in tutte le sue arroganze e le sue scempiaggini. E’ la storia incredibile di Giuseppe Vella, sbarcato a Palermo il 13 maggio 1780, proveniente da Malta, e divenuto abate in virtù di una menzogna saracena propinata come un afrodisiaco a nobili, prelati ed eruditi di un fantomatico Consiglio d’Egitto. Un romanzo, nient’altro che un romanzo. Un gioco letterario raffinatissimo per dimostrare al mondo che ogni storia vera non sempre è accaduta; che dietro le migliori intenzioni possono spesso nascondersi – e si nascondono – ambizioni e giochi pericolosi; che dietro le emergenze possono nascondersi gli interessi di una casta, di apparati, di clan, di consorterie innominabili e spregiudicate.
I due libri che abbiamo sin qui sfiorato sono passaggi obbligati per capire la forza con la quale irrompe nel dibattito politico, civile e giudiziario l’articolo, pubblicato dal Corriere della Sera, sui professionisti dell’antimafia. Sciascia, con quell’articolo alza, oltre alla bandiera dello Stato di diritto, la bandiera della regola che non può essere travolta e stravolta da nessuna emergenza. Quel saggio gli costò caro. Leoluca Orlando e gli estremisti che già credevano di avere preso la Bastiglia lo insultarono, lo sputacchiarono e, a modo loro, ritennero di averlo collocato “al di fuori della società civile”. Segno che Sciascia, come sempre, aveva visto oltre le apparenze e aveva scoperto le menzogne di una notte balorda. Non solo per la giustizia.