Se Orlando il sindaco non lo sa fare, Pogliese il sindaco non può più farlo. Almeno per il prossimo anno e mezzo. La sentenza di primo grado del Tribunale (di Palermo) ha tolto a Catania la sua guida. Non solo al Comune, dove a occuparsi di tutto sarà Roberto Bonaccorsi, fedelissimo dell’ex sindaco Raffaele Stancanelli. Ma anche alla Città Metropolitana: Pogliese è decaduto anche da lì – caso più unico che raro – e adesso si è in attesa delle determinazioni della Regione, che potrebbe mandare al suo posto un commissario. Resta un dato tragico: a due anni dall’elezione, e dopo aver rintuzzato i danni potenziali di un dissesto da 1,6 miliardi di euro (a un certo punto si pensava che gli autobus in città non potessero più circolare), Pogliese è fuori dalla partita. A causa di una legge, la Severino, che non ha nulla di garantista e che stabilisce l’estradizione dai palazzi del potere dopo un solo grado di giudizio. Viva la presunzione di colpevolezza.
La decisione dei giudici ha determinato quella – conseguente – del prefetto Claudio Sammartino: ovvero la sospensione immediata dalla carica di sindaco per 18 mesi. Diciotto mesi sono lunghi, soprattutto per una città come Catania, che versa in condizioni economiche disastrose ed è alle prese con l’emergenza più preoccupante: il Covid. Proprio l’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, in settimana aveva messo tutti in allerta: ci sono due cluster – sarebbero i focolai – e il virus circola ancora. Servirebbe una guida forte e legittimata: non che Bonaccorsi non lo sia, per carità, ma un sindaco è pur sempre un sindaco, e Catania non può rinunciarci a cuor leggero. Pogliese, pur di diventarlo, aveva abbandonato il parlamento europeo e si era decurtato dell’80% l’indennità di carica. Pur essendo consapevole che sulla sua testa, dal 2012, pendesse l’accusa peggiore per un politico che si professa “integro”: il peculato. “Sono assolutamente certo della mia correttezza etica e morale”, ha detto dopo la sentenza. Ma la sentenza c’è e resta. Così come le determinazioni che lo riguardano.
Rimanere da “capitano non giocatore” e da “primo tifoso di questa squadra”, sperando di tornare in sella fra 18 mesi – sempre se non interverrà una condanna in appello – espone la città al rischio della paralisi e della rappresentanza. Ma anche dimettendosi, cosa che Pogliese ha escluso di fare, Catania andrebbe incontro a una fase di stallo e ad elezioni non prima di un anno (a ottobre non si può). Il sindaco, piuttosto, continuerà a dettare la linea fuori dal suo ruolo istituzionale, e nessuno potrà impedirglielo. Ha definito il suo “un cammino virtuoso che solo degli sciagurati e degli irresponsabili possono auspicare venga traumaticamente interrotto da un lungo commissariamento”.
Le opposizioni però sono già passate all’attacco. Il Movimento 5 Stelle, che alle ultime Amministrative ottenne una prestazione orrida (e il suo candidato Giovanni Grasso, in seguito, abbandonò il gruppo), ha già fatto rilevare che al sindaco e alla giunta manchi una visione: “Sonora bocciatura su rifiuti, urbanistica e partecipate, per non parlare della colpevole assenza dai dibattiti sulle sfide chiave della città: mobilità, progetti sul waterfront, lotta agli sprechi, gestione dei servizi ai cittadini. Un’amministrazione che ha portato a termine, a stento, atti di ordinaria amministrazione e che ha puntato a galleggiare più che a governare”, hanno scritto i deputati grillini dell’Ars. Anche il Pd, attraverso il neo-segretario Barbagallo, ha chiesto a Pogliese di non prolungare l’agonia: “La città non può restare acefala ed essere ostaggio delle sue vicissitudini personali”.
Ma qui a perdere non è solo Catania, in perenne attesa di riscatto (le buone notizie arrivano solo dal calcio, dove la squadra è stata salvata in extremis da fallimento). Bensì Pogliese, che stava laboriosamente costruendo il proprio futuro politico. La sua posizione era tornata in auge dopo l’adesione a Fratelli d’Italia e l’addio a Micciché e Forza Italia. La Meloni lo aveva subito omaggiato col titolo di coordinatore regionale e il sindaco s’era “infiltrato” in ogni occasione utile a palazzo dei Normanni e d’Orleans, per mettere a punto le strategie in tema di rimpasto e Amministrative. Ma non è più un mistero che il nome di Salvuccio fosse quello più “quotato” per il dopo Musumeci, anche grazie alla sponda e alla simpatia personale di Matteo Salvini. E a una stima diffusa nei suoi confronti (compresa quella del “rivale” Catano De Luca, un altro degli accreditati). Il cavallo giusto su cui puntare, se il colonnello Nello non avesse brillato negli ultimi due anni di legislatura.
Le ultime vicende, però, consigliano prudenza. La parabola politica di Pogliese rischia di essere intaccata da questo incidente di percorso. Così come lo è – intaccata – quella del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che al collega di 24 anni più giovane è accomunato da una terribile statistica. La classifica di gradimento pubblicata qualche settimana fa da ‘Il Sole 24 Ore’, li vede annaspare in fondo: Orlando, alla posizione 105, l’ultima, con appena il 38% dei favori. Pogliese poco più su, in 103.esima, dopo aver perso il 14% dei consensi dal giorno della sua elezione. Lo specchio di due sindaci poco stimati (nei numeri) e di due città le cui ferite andrebbero rimarginate con un piano shock, immediato. Invece l’unica risposta che ha dato Orlando alla mancanza di dignità rappresentata da 500 bare accatastate in un deposito al cimitero dei Rotoli, è l’estumulazione delle salme che hanno superato i trent’anni (per far posto alle nuove).
Palermo, come Catania, aspetta un barlume di vita, un accenno di novità. Anche Orlando, intonso sotto il profilo giudiziario, è reduce da clamorosi scivoloni. La corruzione nel campo dell’edilizia, col diretto coinvolgimento del suo ex assessore, Emilio Arcuri, dei suoi dipendenti più fidati (in primis, il funzionario Mario Li Castri), e di alcuni consiglieri comunali della sua parte politica, l’hanno fatto sprofondare nella vergogna. E reso consapevole del fatto che pure un sindaco tutto “pane e legalità” può essere aggirato e beffato con facilità nelle dinamiche amministrative. Forse perché il “professore” non è più abituato ad amministrare, nel senso stretto del termine, ma a rappresentare, importando ed esportando cultura, senza affondare le mani nella carne viva dei problemi.
Gli è toccato farlo di recente. In occasione dell’alluvione nel giorno del Festino, quando la città è rimasta sott’acqua, coi sottopassi di viale Regione allagati e poveri disperati che se la davano a nuoto, e quasi ci scappava il morto. E’ lì che Orlando, dopo 35 anni, ha rischiato il baratro e il senso del ridicolo. Il sindaco non è riuscito a giustificarsi per la mancata pulizia delle caditoie, per i ritardi nei soccorsi, per la scadente attività di prevenzione, per la carente interlocuzione coi soggetti interessati (la Regione). Ha mostrato disagio per gli altri, senza mai recitare un mea culpa. Al suo arco politico, a differenza del collega etneo, sono rimaste poche frecce: magari riuscirà a spenderle da qualche parte, fra Bruxelles e Strasburgo, ma non a Palermo, dove il suo tempo è scaduto. Dove i problemi non si risolvono andando a teatro, o indossando magliette rosse. Dove i rifiuti restano sui marciapiedi e quando piove la città s’allaga. E’ stato il sindaco più longevo e, forse, lo sarà per sempre.
Ma nei due anni che restano da qui alla fine della legislatura, Palermo merita un sindaco a tempo pieno. Che si cali in un contesto d’emergenza, senza troppi fronzoli, e agisca in fretta e furia. La città deve redimersi, non specchiarsi. Come Catania, d’altronde (è questo l’altro punto di contatto con Pogliese, a parte la classifica). Pensare che il peggio sia alle spalle non aiuta ad affrontare le sfide del presente. Farlo senza una guida certa, o con lo spettro di un commissariamento di passaggio, è un incentivo ad allargare le braccia. L’importante è non cedere alle tentazioni.