Se un Papa non piace ci si sente in colpa. Giudicare un papato sembra un atto fuori misura. Sentimenti e idee personali a parte, un bel po’ di mondo Francesco se lo è fatto piacere da subito, perfino troppo, per recuperare uno stadio di innocenza affettiva compromesso dalle raffinatezze teologiche e letterarie di Paolo VI, dai suoi tragici dubbi, e poi dallo spirito regnante e guerriero di Wojtyla, dalle sue tragiche certezze, e dalla soave intrattabilità teologica e morale di Ratzinger, custode non negoziabile di una fede e di una cultura che stavano soccombendo di fronte al wokismo relativista. Esigere una vita innocente è precisamente il male di quest’epoca, almeno secondo un’idea tradizionalista o conservatrice di intelligenza e cultura. Ma va anche detto che Francesco, sotto quel sorriso che era anche un ghigno, e con quel brutto carattere che era un aspetto importante del suo animo, ebbe ambizioni forti. Scelse un nome inedito e anche inaudito, quello di un alter Christus, di un uomo che parlava con la natura come i matti, uccellini e lupi, e subito precisò che il nome del grandissimo santo non ammetteva un numero progressivo al seguito. Volle essere un grado zero della pastoralità, un uomo venuto da lontano per realizzare i disegni mistici e mondani della grande élite gesuita alla quale apparteneva, e che da oltre cinque secoli era esclusa quasi per statuto materiale dall’elevazione al soglio di Pietro.
Il progetto era alto, forse anche fuori misura. La forza travolgente della colloquialità, che alla fine banalizza tutto e tutto assimila e omologa, in principio sembrava lo strumento decisivo di una visione chiara del nuovo magistero pontificio, riluttante alla teologia e al Palazzo apostolico, insofferente del moralismo anche nella sua veste più elegante e persuasiva, ostile alle scarpe rosse, alle limousine, alla sontuosità della liturgia cattolica e dello stile vaticano, al free speech come libertà di pettegolezzo e mormorazione, alle cordate e alle lobby, alle costrizioni della politica internazionale. Sistemati i princìpi non negoziabili, che furono messi da parte in apparente noncuranza insieme con l’idea di una rivoluzione antropologica laica ma di matrice cristiana, Francesco tentò di calare nella sua predicazione la “dolcezza” (così la definì) del primo sacerdote della iniziale combriccola di sant’Ignazio, Pietro Favre, con quel suo meraviglioso Memoriale tutto intessuto di movimenti dell’animo cristiano per quel tempo modernissimi e visionari.
Purtroppo per la sua esperienza di parroco del mondo, modesto ma non così bonario come sembrava, per la sua pratica di austerità e solidarismo, per la sua ingannevole credenza nel pianeta da riscattare dalle cattiverie dello sviluppo, per la sua rinuncia al confronto con l’assoluto della verità codificato nelle lettere episcopali o encicliche che non ha mai scritto, et pour cause, purtroppo nel corso del tempo si rese conto che qualcosa era andato storto e che la buona volontà, e un governo politico serrato della struttura ecclesiastica, non bastavano a riempire di cuore, di carne, di penetrazione intellettuale e etica i contenuti ultimi della fede. Si può credere che ne abbia sofferto. Continua su ilfoglio.it