La campagna elettorale per le Europee ruota attorno a un principio divenuto indissolubile: chi è legittimato a svolgere attività politica? E soprattutto, chi lo decide? A distribuire patenti di candidabilità, se non addirittura di partecipazione alla vita pubblica, sono due moralisti (ex) grillini. L’ex sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, e l’ex viceministro all’Economia, Laura Castelli – oggi esponenti di +Europa e Sud chiama Nord – vorrebbero cancellare Totò Cuffaro dalla scena politica per aver scontato cinque anni di carcere a Rebibbia come conseguenza di una condanna per favoreggiamento. Non importa che abbia già saldato il proprio debito: a Cuffaro dovrebbe essere impedito con ogni mezzo di tornare in campo, nonostante gli osannati tribunali – in questo caso quello di Sorveglianza di Palermo – lo abbia riabilitato, dichiarando estinta la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
E’ l’odio accecante che diventa strumento di campagna elettorale. Ma è vero anche il contrario: senza Cuffaro in campo, chi dedicherebbe due righe a Pizzarotti e alla Castelli? Nessuno probabilmente. La presenza del governatore fa comodo soprattutto a loro. Che, peraltro, hanno già scelto di andare da un’altra parte (la Castelli assieme all’ex Iena La Vardera, un altro dai rigurgiti forcaioli). E comunque la questione continua a tenere banco: i grillini hanno cambiato partito, hanno attraversato governi, hanno “tradito”, fomentato il proprio ego e osannato nuovi leader, ma non si sono mai sbarazzati di quell’aura di moralismo che li fa credere migliori. Il risultato delle Europee, probabilmente, restituirà ad ognuno pan per focaccia, ma nel frattempo, in questa palude che è la campagna elettorale, fanno la voce grossa.
Facilitati dall’opinione diffusissima, tra i moralisti, che Strasburgo debba diventare un parcheggio per santoni dell’antimafia. Qualche giorno fa l’edizione palermitana di Repubblica si chiedeva perché il Pd non ne avesse ancora trovato uno da mandare a Bruxelles. Non bastano le brave persone, come l’ex medico di Lampedusa Pietro Bartolo o l’ex deputato regionale Giuseppe Lupo, ingiustamente mascariato alla vigilia delle ultime regionali e platealmente assolto, qualche settimana fa, dall’accusa di corruzione. No. Ci vuole uno con le stellette dell’antimafia, come è accaduto a Caterina Chinnici per un paio di legislature: oggi, però, la figlia del giudice Rocco, anch’egli ammazzato in modo barbaro da Cosa Nostra, è transitata con la sua storia in Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri; ed è a quel partito che ha trasmesso la “questione morale”, facendosi beffe del garantismo. Sono stati Chinnici e Tajani a chiudere le porte in faccia al partito di Totò Cuffaro, mentre per tutti gli altri – dagli Autonomisti a Noi moderati – le porte rimangono spalancate.
Ma si può avere una così bassa considerazione dell’Europa da spedirci chiunque, purché possegga un cognome “spendibile”? Perché – con tutto il rispetto del caso – che tipo di politica, a difesa del proprio territorio, e quale valore aggiunto saranno in grado di esprimere le Chinnici, gli Antoci (l’ex presidente del Parco dei Nebrodi reclutato da Giuseppe Conte), i De Caprio (inteso come il Capitano Ultimo) del caso? Quale contributo riusciranno a dare alle politiche agricole comunitarie, il cui sconquasso ha portato i trattori in strada? Quale apporto a una modifica delle politiche migratorie, così da evitare che l’hotspot di Lampedusa torni presto a “esplodere”? Insomma, questi politici divenuti tali nel nome dell’antimafia, ma ancora fermi a una rappresentazione di venti o trent’anni fa (ne sono passati tanti da quando il Capitano Ultimo ha arrestato Totò Riina), potranno permettere alla Sicilia di contare qualcosina in più? Eventualmente, come? Perché gli elettori della Chinnici dovrebbero continuare a votarla? In nome di quale risultato conseguito in Europa?
Queste domande esigerebbero una risposta che non arriva, neppure da coloro che caldeggiano la pista dell’antimafia e del moralismo applicato all’Europa. Il Pd, sollecitato da Repubblica sul perché non si sia dotato di una icona dell’antimafia, ha risposto così: “Il principio è quello di non affidarsi alle icone, la lista sarà fatta da uomini e donne che praticano l’antimafia ogni giorno”. Evviva. Ma altri non hanno ancora imparato la lezione. Il partito di Calenda, che Pizzarotti vorrebbe assorbire in un accordo con +Europa (e Renzi?), si è affidata a Sonia Alfano. La figlia del giornalista assassinato da mano mafiosa nel ‘93, aveva già frequentato le bellissime residenze europee di Strasburgo e Bruxelles, con Italia dei Valori, il partito dell’ex pm Antonio Di Pietro, dal 2009 al 2014. “Mi sento onorata di poter portare avanti le istanze di tutte le persone che in Italia credono fermamente nella lotta alle mafie, alla corruzione e alle ingiustizie”. Un’altra ex grillina, la testimone di giustizia Piera Aiello (vedova del boss Nicolò Atria, che fino alle Politiche ‘18 non poteva neppure mostrare il volto e metterlo sui santini elettorali), è stata arruolata da Cateno De Luca, assieme al Capitano Ultimo e a Giuseppe Piraino, che ha sfidato il pizzo di Brancaccio.
Nessuno – e sottolineiamo: nessuno – intende sminuire la storia di uomini e donne, ma il fatto che i partiti debbano servirsene a tutti i costi, conferma la pochezza di cui è fatta la politica, oggi sempre più incline a privilegiare la forma anziché la sostanza, ad assecondare la pancia anziché la testa. Quest’antimafia di trent’anni fa, che col suo esempio sarebbe già dovuta servire a debellare un pezzo di malcostume delle pratiche quotidiane (specie in Sicilia), e a impedire che gli scandali – sotto forma di lobby e faccendieri – si ripresentassero puntualmente nei palazzi della Regione, oggi si reincarna come strumento di potere. Diventa antimafia prêt-à-porter, si fa preferire alla politica seria e capace, che in quanto tale dovrebbe possedere, da sé, la caratteristica del rigore morale. Invece siamo fermi all’esempio, di qualcuno; e alle patenti, di qualcun altro. Per i contenuti, rivolgersi altrove.