L’autonomia differenziata è già realtà di fatto a livello sanitario. Non stiamo parlando di un’autonomia ‘voluta’, una devolution di competenze negoziata tra Regioni e Stato centrale. Più che altro è il frutto delle disuguaglianze già esistenti tra Nord e Sud. Ne sanno qualcosa i governatori di Calabria e Basilicata, appartenenti alla stessa maggioranza che sta confezionando la riforma a Roma, che non a caso hanno levato la loro voce in dissenso ai propri compagni di partito e alleanza. Le prestazioni di qualità scadente nel Mezzogiorno portano infatti alla fuga di migliaia di pazienti e medici verso gli ospedali di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Secondo un report della Fondazione Gimbe, con la riforma appena approvata dalla Camera dei deputati, questa “differenza strutturale” tra sanità regionali sarà accentuata sempre di più: lo si vedrà sugli stipendi differenziati del personale sanitario, sulla quantità differenziata di borse di studio fino ad arrivare al tariffario differenziato delle prestazioni, che potrebbe diventare la grande occasione, per i privati, di ottenere più pazienti (che diventano dunque clienti).

Durante la loro ultima audizione parlamentare sulla riforma appena approvata a Montecitorio, la Fondazione Gimbe, autorevole istituto di ricerca con sede a Bologna e specializzato nella ricerca sanitaria, ha chiesto alla maggioranza di “espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie”. Due i timori della Gimbe al riguardo, a partire dai Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, ovvero i livelli minimi di qualità e quantità che lo Stato centrale, al di là dei gradi di autonomia delle Regioni, deve garantire nella fornitura di un servizio pubblico da Nord a Sud. Il Ddl a firma Roberto Calderoli prevede che a essere soggette a trasferimento di competenza da Roma alle Regioni possono anche essere le materie dove l’eventuale finanziamento o raggiungimento dei Lep non sia ancora stato raggiunto. La maggioranza ha cercato di metterci una pezza, ponendo la definizione dei Livelli essenziali come condizione sine qua non per procedere alla singola devolution. Ma la sostanza non cambia, come segnala il report: “L’assegnazione di maggiori autonomie precede il recupero dei divari tra le varie aree del Paese”. A preoccupare i ricercatori, e veniamo al secondo timore, anche la procedura per l’assegnazione del livello di autonomia alle singole Regioni, in mano al presidente del Consiglio, con un Parlamento che viene “di fatto esautorato sia dalla valutazione e approvazione delle maggiori autonomie richieste, sia nella fase iniziale della definizione dei Lep”.

Il problema è che, secondo Gimbe, se il Servizio sanitario nazionale rischia di uscire “fratturato” tra Nord e Sud in caso di autonomia differenziata, esso in realtà è già diviso in “21 sistemi sanitari regionali profondamente diseguali”, con i residenti della maggior parte delle Regioni meridionali “a quali non sono garantiti i livelli di assistenza minimi”. Un’autonomia differenziata ‘di fatto’ che causa già di per sé alcune grandi criticità. Si pensi alla qualità del servizio. Dall’analisi delle prestazioni essenziali – quelle fornite dal Ssn gratuitamente o dietro pagamento di una ticket – nel periodo 2010-2019, la fondazione guidata da Nino Cartabellotta ha calcolato le percentuali di adempimento regione per regione. Una sorta di pagella sulla sanità di ognuno dei 21 soggetti regionali (il Trentino Alto Adige è composto da due Province autonome). Ai primi posti della classifica spiccano proprio le tre regioni che, prima della pandemia, avevano già avanzato la loro intenzione di richiedere maggiori competenze: Emilia-Romagna (con un tasso di adempimento del 93%), Veneto (89%) e Lombardia (87%). E poi via via a scendere, con percentuali tra il 75 e l’85% per alcune regioni centrali, fino ai fanalini di coda, al di sotto della sufficienza: Calabria (59%), Campania (58%) e Sardegna (56%).

Interminabili tempi di attesa per una visita, necessità di ricorrere alla spesa privata per le famiglie, rinuncia alle cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un pediatria di famiglia vicino casa. Il tutto condito da una ovvia conseguenza: una crescente migrazione sanitaria. Nel 2021, le prestazioni fornite da Regioni del Nord a pazienti provenienti dal Sud hanno toccato quota 4,25 miliardi di euro. Il 93,3% di questo denaro lo hanno ricevuto tre Regioni, sempre loro: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Stiamo parlando di risorse che non vengono sborsate direttamente dai pazienti. Come funziona? Il paziente meridionale prenota al Nord, effettua la visita o la prestazione (per il 75% dei casi si tratta di ricoveri ospedalieri), e poi a pagare ci pensa la Regione di residenza. In dieci anni la Fondazione Gimbe calcola che Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia, Sardegna e Puglia hanno versato in Pianura Padana qualcosa come 13,2 miliardi di euro. Questa dinamica, tra l’altro, impedisce alle stesse Regioni del Mezzogiorno di rispettare l’efficienza dei propri conti. Tradotto: le sanità di Molise e Calabria sono commissariate e quelle delle altre quattro sono da almeno dieci anni impegnate in faticosi piani di rientro del debito.

La mobilità sanitaria non riguarda solo i pazienti, ma anche il personale. Per fare un esempio, nel 2021 il numero di infermieri in Italia era pari a 6,2 ogni 1.000 abitanti, ben al di sotto della media Ocse di 9,9. Dietro quel numeretto già basso, però, si nasconde un’enorme sperequazione geografica: in Friuli Venezia Giulia sono 6,72 su 1.000 pazienti mentre in Campania non vanno oltre i 3,59 su 1.000, addirittura meno della metà. I piani di rientro e i commissariamenti di cui sopra, trattandosi di strumenti che guardano solo al risanamento economico-finanziario, rendono molto più complicato procedere all’assunzione di nuovo personale. Cosicché si innesta una reazione a spirale – un problema tira l’altro – per cui la “frattura strutturale” Nord-Sud portata in dote dalla riforma Calderoli comprometterà definitivamente “l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute”.

Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, prosegue il report Gimbe, acuiranno la frattura già esistente: dalla fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni più ricche in grado di offrire salari e borse di studio più vantaggiose alle maggiori occasioni di business per la sanità privata cogliendo le opportunità garantite da 21 sistemi tariffari, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione differenti tra loro. Senza modificare i criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, senza superare i Piani di rientro e senza aumentare le capacità di verifica dello Stato sulle Regioni, con l’autonomia differenziata la sanità “diventerà bene pubblico nelle più ricche Regioni del Nord e un bene di consumo per le altre Regioni”. Ultimo ma non ultimo: la riforma può diventare un problema anche per il Nord. L’ulteriore indebolimento della qualità nel Mezzogiorno rischia di generare un effetto paradosso, un ulteriore incremento della mobilità verso Nord che rischia di minarne la capacità di rispondere alla domanda di prestazioni: la “spia rossa” si è già accesa in Lombardia, che nel 2021 si trova sì al primo posto per mobilità attiva (+732 milioni di euro) ma anche al secondo per mobilità passiva (-461 milioni). Tradotto: sono sempre di più i residenti lombardi che vanno a curarsi fuori Regione. Perché? Ne arrivano troppi da Sud.

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