Magari fossimo tutti così bravi a sdottorare come fa Leoluca Orlando. Il sindaco di Palermo, tronfio nonostante le 800 e passa bare ai Rotoli e i quartieri invasi dalla monnezza – e per di più senza una maggioranza, il che rischia di creagli parecchi grattacapi per quest’ultimo anno di consiliatura – se ne va in giro a rilasciare interviste a destra e a manca per spiegare, nell’ultima ad Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano, che “noi attempati siamo i più forti”. Lo fa evocando la candidatura di Antonio Bassolino a Napoli, e quelle di Bertolaso e Albertini (seppur dall’altra parte della barricata) a Roma e Milano. E forse immaginando la sua prossima discesa in campo, nel 2027, dopo cinque anni di naturale “riposo”.
Sette mandati da sindaco, al di là della rivoluzione promessa (e in parte mancata), della liberazione di etichette ingombranti (lui stesso si definisce ex giustizialista ed ex populista), dei risultati amministrativi conseguiti, della capacità di coinvolgere e farsi seguire da una maggioranza esanime, hanno consegnato al prof. la consapevolezza i fare parte del club dei ‘migliori’. Nonché l’indole a sciorinare le proprie doti, condannando – fra l’altro – i nuovi arrivati sulla scena: “Se questa classe politica ha una colpa grave – ha rivelato al Fatto – è certamente quella di non aver avuto una scuola di politica. E’ giunta ignorante, sbandata, affetta da una sindrome compulsiva dell’istante”.
Da novello e futuro opinionista, pur non sapendo dare una forma definita all’oggi (al suo oggi), si lancia nelle previsioni più azzardate (come quella su Salvini che verrà fregato dalla Meloni perché “non ha coscienza del tempo, è uno spacciatore di vittorie effimere”). Ma non una sola parola – dall’alto della sua spocchia – su quello che è diventata la quinta città d’Italia. Palermo, amata e abbandonata, capace di regalargli un successo elettorale senza precedenti (“Sa che io sono stato per quattro volte il più votato nel consiglio comunale?”, si compiace col cronista), ridotta nella polvere da una totale assenza di sensibilità amministrativa. Allora che serve il detto ‘attempato è bello’, se quelle rughe e quelle calvizie non sono il segno di uno spiccato senso patriottico, di un tentativo strenuo di risolvere i problemi per il bene dei tuoi concittadini?
Se la copertina di Palermo non è più Manifesta ma la discarica di Bellolampo esaurita, perché non cambiare i codici del buongoverno, modificando in corsa la propria “teologia”, passando dall’essere saggio all’essere concreto. Tramutando il punto d’osservazione, dall’alto in basso? Toccando con mano i problemi della quotidianità, e non solo per aver indossato un paio di guanti sgualciti e provato a rimuovere un divano dal bordo della strada? “L’esperienza è la parola chiave che diamo ai nostri errori”, dice Orlando citando Bernard Shaw. Ma non una singola sillaba sulla capacità (e le difficoltà, per carità) di adattarsi – lui per primo – ai tempi. D’altronde, sarebbe bastato continuare a fare il sindaco ancora un po’, dismettendo gli abiti del supremo maestro, sporcandosi le mani per davvero. Per una città che l’ha adorato e forse, oggi, non vede l’ora di liberarsene.