I parlamentari dell’Ars si sono dati due settimane di tempo per ragionare su un disegno di legge che – così com’è – non passerà mai il test di Sala d’Ercole. L’obiettivo è ridisegnare gli enti locali secondo criteri, a partire dall’introduzione di un assessore in più nelle giunte comunali (a invarianza di spesa), che a molti fanno storcere il naso. E mentre per la Democrazia Cristiana, che presiede la commissione Affari Istituzionali, “si è imboccata la strada giusta”, il resto dell’Assemblea è una polveriera. La sensazione è che siano (altre) due settimane buttate perché, per dirla con Cateno De Luca, è evidente che questo testo risponde “più alle esigenze della maggioranza di distribuire contentini e prebende, piuttosto che affrontare seriamente le problematiche degli enti locali”.

C’è anche un’altra questione in sospeso, cioè quella della rappresentanza di genere. Mentre la giunta di Schifani, per la prima volta nella storia, ha dovuto rispettare la proporzione di 1 a 3, e nel resto d’Italia si è acconsentito a schierare il 40% di donne nelle amministrazioni locali, nei comuni siciliani ci si vorrebbe fermare al 20. Una proposta ingiuriosa che molte signore, anche di Forza Italia, hanno rispedito al mittente. Così come Totò Cuffaro: “La Democrazia Cristiana supporta ‘Quota 50’ e all’Ars sosterrà l’emendamento per aumentare la soglia di presenza delle donne in giunta, come rappresentanza di genere nei Comuni con popolazione superiore ai tremila abitanti”.

Questo giochino toglie a Schifani qualche castagna dal fuoco, perché sa bene il governatore che presentarsi in aula con questo testo significa soccombere un’altra volta, dopo le due figuracce rimediate sulle ex province: il 7 febbraio e il 31 luglio. Due date che entrano di diritto nel prontuario delle sberle di questa legislatura: in entrambe le occasioni la maggioranza è andata sotto, sconfitta e umiliata. Nel primo caso, l’inverno scorso, nel tentativo di reintrodurre l’elezione diretta del presidente della provincia (un atto che sarebbe stato impugnato da Roma perché in conflitto con la Legge Delrio, non ancora abrogata), con una manifestazione d’insofferenza trasversale, come testimoniato da una decina abbondante di franchi tiratori (la votazione finì 40 a 25 per l’opposizione); nel secondo, prima delle ferie estive, si tentò di riproporre una norma meno audace: anche in quel caso la maggioranza fu costretta a soccombere a un soppressivo presentato da De Luca per un solo voto (e guarda caso Schifani era assente). L’unica promessa che si riuscì a strappare fu la data delle elezioni di secondo livello: se ne parlerà a metà dicembre, come deciso nel vertice di centrodestra, ma a votare saranno solo sindaci e consiglieri comunali.

Le province come ce le ricordavamo, restano un miraggio. Anche perché l’aula non è capace, da sola, di autodeterminarsi. Né sulla reintroduzione degli enti d’area vasta, ormai commissariati da più di un decennio; né nella formulazione di un disegno di legge degli enti locali che possa rispondere alle necessità reali: “Se non ci dovesse essere un’azione migliorativa per i Comuni – “minaccia” il grillino Di Paola – non escludiamo si possa utilizzare il voto segreto su ogni articolo e su ogni comma, come peraltro prevede il regolamento dell’Assemblea”. L’analisi del Pd Antonello Cracolici è ancora più impietosa: “Questo è un disegno di legge che non ha né capo né coda, e non si concentra sui problemi reali degli enti locali: siamo la terra con il più alto numero di comuni in dissesto o pre-dissesto, c’è un tema della rappresentanza di genere che non può essere interpretato come una concessione, ma soprattutto c’è una deriva molto pericolosa che riguarda il condizionamento, da parte della criminalità organizzata, degli atti dei nostri comuni e delle nostre amministrazioni”.

Il risultato è che se ne parlerà ancora per un paio di settimane, nel tentativo di smaltire i circa 350 emendamenti depositati dai gruppi. E che questa riflessione – con un nuovo passaggio in commissione Bilancio, per quelli che prevedono spesa, e in commissione Affari istituzionali – non faccia altro che allungare il brodo inutilmente, facendo perdere di vista le vere priorità. Cose già viste. In questa legislatura non si è ancora assistito a uno straccio di riforma. Anzi, le uniche proposte sensate sono diventate carta straccia: come quella dell’ex assessore Sammartino relativamente ai Forestali, con una progressiva cancellazione del precariato. Da quando il leghista è stato assorbito dalle proprie vicende giudiziarie, il testo del ddl è diventato lettera morta (anche se il neo assessore Barbagallo ha promesso di ritirarlo fuori dai cassetti).

La prossima proposta che potrebbe fare una fine simile è quella appena esitata in commissione Attività produttive sui Consorzi di Bonifica. Forza Italia, con uno slancio d’orgoglio, ha provato a farla propria (anche se l’iniziativa è del governo: citofonare assessorato all’Agricoltura). La principale novità è la riduzione del numero dei Consorzi da 13 a 4, cui si accompagna la previsione di transito di tutto il personale attualmente in servizio ed una riorganizzazione complessiva dei servizi che, secondo Gaspare Vitrano “renderà il sistema consortile più snello, con una migliore organizzazione operativa ed una migliore distribuzione delle risorse”. Il presidente della commissione, tra i fedelissimi di Edy Tamajo, sottolinea inoltre “una nuova governance dei Consorzi, che veda gli agricoltori direttamente protagonisti, dovrà pianificare con attenzione l’uso e la necessità di risorse, a partire da quelle umane, con la possibilità che si aprano nuove prospettive occupazionali per garantire servizi sempre più efficienti a tutto il comparto agricolo”.

Ahia. Siamo di nuovo alle promesse di generare posti di lavoro. Un azzardo. Così come potrebbe rivelarsi un boomerang arrivare in aula con la riforma già pronta e non riuscire ad approvarla in tempi celeri, per di più in un periodo storico segnato da una fortissima siccità e da istituzioni sempre più sorde. In generale, la storia di questo scorcio di legislatura conferma la regola: il parlamento fa poco, ma quando fa – solitamente – sbaglia.