L’artista, seduta, offre le spalle nude alle ombre delle grate che si proiettano sulla sua pelle, disegnando rombi regolari simili ad una graticola. La fotografia, realizzata all’interno dell’ottocentesco ex-Monte dei Pegni di Santa Rosalia a Palermo, è l’immagine della mostra di Marzia Migliora che inaugura oggi, sabato 8 settembre a Palazzo Branciforte, una delle due sedi di Fondazione Sicilia, in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino. L’opera dal titolo, A Dora D. è un omaggio a Dora Diamant, che si prese cura di Franz Kafka nella fase terminale della sua vita quando l’autore scrive il suo ultimo racconto dal titolo, Un digiunatore (1922), emblematica storia di un professionista del digiuno che, all’interno di una gabbia si mostra agli spettatori paganti. Il protagonista del racconto pratica il digiuno come forma d’arte estrema e vive le angosce di ogni creativo che teme di non essere compreso dal pubblico. Nella fotografia il corpo di Marzia Migliora è in dialogo con la struttura a griglia che connota l’architettura lignea del deposito, in cui le linee verticali e orizzontali s’intersecano su più piani proprio come le sbarre di una gabbia.
Il tema del cibo, come bisogno primario necessario per la sopravvivenza dell’uomo e inserito all’interno del sistema economico, è il nucleo intorno al quale l’artista ha ideato la sua mostra site-specific dal titolo, Voce del verbo avere, a cura di Valentina Bruschi e Beatrice Merz, inserita all’interno del programma della Fondazione Merz per Palermo, Punte brillanti di lance (fino al 4 novembre). “Con questa mostra, Fondazione Sicilia prosegue la felice collaborazione con la Fondazione Merz, nell’ottica – afferma il presidente di Fondazione Sicilia, Raffaele Bonsignore – di un dialogo sempre più creativo e proficuo con le realtà più prestigiose in ambito nazionale e internazionale. Voce del verbo avere è un viaggio di impegno civile e politico, parole intese nel loro senso più alto, di un’artista contemporanea di grande potenza, che si inserisce nel percorso di apertura ai linguaggi contemporanei intrapreso dalla Fondazione Sicilia”.
Oltre all’immagine fotografica usata come icona della mostra, l’artista ha realizzato altre tre opere inedite (Voce del verbo avere, Pane di bocca e l’arte della fame). Il progetto è connotato da modalità espressive ricorrenti nella produzione dell’artista: la relazione con lo spazio e la storia e il vissuto dei luoghi. L’opera, Voce del verbo avere, trae suggestione dall’obolo di Caronte, la moneta d’argento che, nella mitologia greca e romana veniva posta nella bocca dei defunti, affinché la consegnassero al traghettatore di anime per avere accesso al mondo dei morti. L’artista, prendendo spunto dalla collezione numismatica della Fondazione Sicilia, si riappropria della simbologia antica, ponendo una dracma greca degli anni trenta – moneta con la medesima iconografia dell’antico obolo, con la dea madre terra Demetra e la spiga di grano – sospesa all’interno della mandibola di uno squalo. Voce del verbo avere, allude al concetto di fame, in due differenti accezioni: la fame come bisogno, conseguenza della crisi economica di cui la Grecia è stata simbolo, e come brama insaziabile di potere, che il sistema capitalistico alimenta in un circolo vizioso, dove la fame, e di conseguenza l’affamare, diventano simbolo.
L’installazione Pane di bocca è costituita da sette fedi originali del 1935 che recano l’incisione “oro alla patria 18-11-35-XIV” costrette nelle morse di pinze odontoiatriche. La Giornata della fede è stata una campagna di propaganda promossa dal regime fascista rivolta al popolo italiano, a sostegno della guerra in Etiopia, chiamato a consegnare alla Patria le proprie fedi nuziali, ricevendo in cambio un anello di latta inciso, come quelli che sono parte dell’opera. Il lavoro allude al concetto di fede, nel binomio dare-avere tra l’autorità dello Stato e il popolo, in un parallelo con la trasformazione di un proprio bene personale in altro, come avveniva presso il Monte dei Pegni.
L’ex Monte dei Pegni, detto anche Monte dei panni, è un’architettura spontanea, composta da un labirinto di stanze con strutture lignee a tutta altezza, create per alloggiare i beni impegnati. Per circa due secoli i poveri vi hanno depositato doti, corredi e oggetti personali in cambio di poche soldi, in molti casi necessari per pagarsi il viaggio per le Americhe in cerca di un futuro migliore. Le opere pensate per questo luogo dall’artista prendono avvio dall’analisi della parola economia, composta da “oikos” e “nomos” che significano, rispettivamente, “casa” e “regola”; amministrazione della casa, nel senso ampio di comunità e società. L’economia, quindi, rappresenta quell’insieme di attività e istituzioni il cui scopo è regolare e soddisfare i bisogni della comunità. L’accesso al cibo dipende dal denaro ed esso è l’unica mediazione tra opposti: abbondanza e assenza, “il rapporto cibo-denaro è inscindibile, la fame è bisogno di cibo, la crisi economica è assenza di denaro, ma Il denaro non si mangia. Il denaro è un ambiguo, libera ma crea nuove schiavitù”, afferma l’artista.
Queste contraddizioni emergono nell’opera centrale della mostra: La fabbrica illuminata, composta da cinque postazioni di lavoro da orafo, che comprendono banchi, sgabelli, luci neon, e utensili; sul piano superiore di ogni banco poggia un blocco di salgemma grezzo, come se fosse in procinto di essere lavorato-trasformato. L’opera, realizzata l’anno scorso per la personale di Marzia Migliora dal titolo Velme a Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, è realizzata usando blocchi di salgemma provenienti dalla miniera di Realmonte (Agrigento) e fa riferimento sia allo sfruttamento delle risorse naturali che della forza lavoro necessaria alla trasformazione delle stesse in merce e in guadagno. Il passaggio di stato dei materiali, come nell’alchimia, il tentativo di trasformazione di metalli non nobili in oro, richiama la relazione di tutti i lavori in mostra alla funzione del Monte dei Pegni, il cui servizio consisteva nella conversione di oggetti personali in denaro contante.
Il percorso della mostra si chiude con l’installazione dal titolo, L’arte della fame, dall’omonimo saggio dello scrittore newyorkese Paul Auster. Si tratta di un carosello, usato normalmente come richiamo dai cacciatori, in cui tre tassidermie di allodole motorizzate rincorrono in un circuito perpetuo una pepita d’oro che, per sua natura, ricorda una mollica di pane. L’opera concettualmente richiama la struttura lignea del deposito dell’ex-Monte dei Pegni, che sembra diventare una grande voliera. Lo specchio circolare dal notevole diametro sul quale volano le allodole riflette lo spazio che diventa un abisso vertiginoso di scale e rimanda alle contraddizioni surreali e fantastiche di Maurits Cornelis Escher, artista che si rifaceva al disordine inquietante della celebre serie delle Carceri di Giovanni Battista Piranesi, dove l’uomo è schiacciato dalle stesse architetture grandiose che è stato capace di creare.