L’Assemblea regionale è ferma a dodici ore d’aula fra marzo e aprile (il dato è stato snocciolato da Repubblica) e a una serie di “riempitivi”, come la rubrica Infrastrutture di martedì, per aggiornare il calendario dei lavori e tenere desta l’attenzione dei pochissimi parlamentari presenti. In questa legislatura si è lavorato poco e male: sono ferme al palo alcune riforme cardine come quelle sulla Pubblica amministrazione e sui Forestali, annunciate rispettivamente da Schifani e dall’ex assessore Sammartino; non vanno in porto nemmeno i tentativi di riforma degli enti locali, con proposte di per sé discutibili (come l’introduzione dei consiglieri supplenti e le quote di genere – al 40%? – nelle giunte dei comuni con più di tremila abitanti) o degli Iacp, gli Istituti autonomi di case popolari. Si sono impantanati anche i dibattiti: quello sulla sanità chiesto a gran voce dai Cinque Stelle, potrebbe tenersi a inizio maggio. Quello sulle spese del turismo, forse mai.

Non è un bel vedere, anche se la questione non è avvertita ai piani alti. La presenza dei deputati in aula è sempre più sparuta e nel corso dell’ultima seduta ce n’erano appena un paio della maggioranza. Con un solo assessore: Alessandro Aricò. Spetta a lui curare i rapporti con il parlamento. Un’operazione facilissima, dato che entrambi – sia il governo che l’aula – sono latitanti. E c’è sempre una scusa per giustificare questo andazzo: la più recente è quella delle elezioni provinciali che si terranno il prossimo 27 aprile. Dopo aver litigato su tutto, i 70 rappresentanti dei siciliani si sono buttati a capofitto nei territori per provare a screditare chi ha fatto una scelta diversa dalla propria, e non si contano più le bordate (da destra a manca).

Il terzo piano di palazzo dei Normanni è una landa desolata, tranne in alcuni periodi dell’anno. Il mese di dicembre è stato il più propizio grazie all’approvazione di una Legge Finanziaria che per poco non finiva impugnata da Roma. Il “collegato” conteneva oltre 60 milioni di norme spot, le cosiddette mance, da riversare sui territori. Non più direttamente alle associazioni – dopo il caso Auteri sarebbe stato francamente incomprensibile – bensì ai sindaci, che non sono neppure nelle condizioni di spenderli tutti. Sindaci che peraltro hanno adottato o adotteranno gli insegnamenti dei deputati, da sempre bravissimi a seminare clientele nei propri collegi elettorali. Perché? Semplicemente non esiste una maniera più democratica…

E poco importa se il Ministero dell’Economia ha segnalato l’anomalia: “Mancano criteri obiettivi e trasparenti nella scelta dei beneficiari”, scrivevano da Roma. Citando una vecchia pronuncia della Consulta in base alla quale, erogando mance senza un bando, “non vengono rispettati i principi di eguaglianza e parità di trattamento previsti dall’articolo 3 della Costituzione”. Schifani si è impegnato a metterci una pezza, e non gli è servito neppure questo grosso sacrificio. E’ bastata una nota indirizzata ai giornali: “Ci siamo impegnati con la Presidenza del Consiglio dei ministri e con il ministero degli Affari regionali affinché per il futuro siano adottate norme improntate al rispetto dei principi di eguaglianza, imparzialità e continenza, in linea con quanto rilevato dal ministero dell’Economia in questa occasione”. Così l’impugnativa è stata scongiurata.

Anche il presidente dell’Assemblea, il patriota Gaetano Galvagno, continua a ripetersi come un disco rotto: “Anch’io le difendo”, ha detto al quotidiano ‘La Sicilia’ riferendosi alle norme-mancia. “Perché a oggi nessuno è riuscito a individuare un metodo equo. Se pensa che si possa sostenere un criterio meramente aritmetico per erogare contributi, incentrato esclusivamente sul numero degli abitanti, beh allora mi troverà abbastanza scettico”. Sul filo di questa sottile inerzia, però, ci si dovrebbe interrogare davvero su come l’Ars spende i soldi a propria disposizione. E ipotizzare due strade: chiuderla (vista la bassa produttività) così da risparmiare i costi della corrente elettrica; o invocare l’intervento della Corte dei Conti per chiedere indietro parte delle indennità dei deputati o delle mance erogate indiscriminatamente fino all’altro ieri, così da evitare il prefigurarsi del danno all’erario.

Al netto della provocazione resta il quadro disarmante descritto da Repubblica: nel 2025 sono stati approvati quattro disegni di legge, compreso un ddl-voto (che andrà quindi approvato in Parlamento nazionale); altri tre disegni di legge sono stati incardinati martedì, ma si tratta solo di “stralci” rispetto a proposte più organiche (c’è comunque la proposta di aumentare lo stipendio dei dirigenti delle società partecipate). Il grosso delle proposte s’è perso nelle commissioni di merito, vittima dei veti incrociati e delle liti furibonde fra partiti della stessa coalizione. O delle feste, da Sant’Agata in giù, che rallentano l’iter parlamentare. L’ex Iena Ismaele La Vardera ha denunciato l’assenza ingiustificata dell’assessore Tamajo, lo scorso 19 marzo, per una seduta ispettiva sulle Attività produttive: l’assessore avrebbe comunicato, attraverso gli uffici, problemi di salute, ma La Vardera ha scoperto che si trovava a Mondello per le celebrazioni di San Giuseppe. Neppure le sanzioni contro gli assenti (ma solo nelle sedute riservate alle votazioni) hanno sortito effetti. E la Settimana Santa è alle porte…

Il parlamento più antico del mondo si presta a teatrini e furbetti, a scandali (come i soldi finiti nelle casse delle associazioni vicine a taluni deputati) e pantomime nella buvette; ma soprattutto non fa più nulla per allontanare da sé questa sensazione di dolce far niente che accompagna i suoi giorni. Siamo a circa metà della legislatura e non è arrivato un segnale, una svolta, o anche una legge con tutti i crismi. Si è letto solo di prebende e variazioni di bilancio pronte a colmare ciò che le mance – nonostante i fondi per le parrocchie, gli organi delle chiese, i campi sportivi, le sagre – non sono riuscite a colmare fino in fondo: cioè l’appetito dei deputati e dei partiti. Che umiliazione.