Nel teatro delle finzioni, quello che sempre e comunque costeggia la peggiore politica, sono entrati in scena i giudici coraggiosi. Sì, proprio quelli che – in nome della lotta alla mafia – non vogliono limiti al loro potere e nemmeno alla durata dei processi. E’ entrato in scena Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo che per oltre trent’anni ha concentrato il suo lavoro e la sua carriera sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e la Cupola di Cosa Nostra; e ha costruito un processo che ha ormai scavalcato i confini del tempo e dello spazio. Se tutto andrà bene la sentenza finale si avrà non prima del 2023. Gli imputati, sui quali l’ufficio dell’accusa si accanisce con particolare zelo, sono eroi della Repubblica: hanno acciuffato negli anni delle stragi Totò Riina, capo dei sanguinari corleonesi, e oggi hanno un’età compresa tra gli ottanta e i novant’anni. Faranno in tempo a vedersi restituito l’onore di carabinieri e servitori dello Stato?
L’ultimo atto di Scarpinato, e dei suoi pubblici ministeri al processo di appello, è stato quello di aggredire la sentenza dalla Cassazione che intanto ha definitivamente assolto Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano, imputato come i generali del Ros, Mario Mori e Antonio Subranni, ha scelto il rito abbreviato e se l’è cavata in tempi più stretti. Anche se il suo calvario, tra le aule dei tribunali, si è protratto per ventisette anni: la procura di Palermo, allora guidata da Gian Carlo Caselli, lo puntò e lo arrestò nel 1995, e lui ne uscì assolto con formula piena; poi intervennero i quattro cavalieri della Trattativa: Scarpinato, Ingroia, Morosini e Di Matteo. Volevano chiuderlo nelle gabbie bianche di un processo senza fine, ma l’ex ministro staccò la propria posizione dal rito ordinario e l’anno scorso ha ottenuto dalla Suprema Corte una sentenza che ha già fatto a pezzi il teorema dell’accusa e che per Scarpinato è diventato ora un ostacolo non facile da superare.
Nel teatro delle finzioni ha fatto irruzione – e non poteva essere diversamente – anche e soprattutto il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi: quel Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, che è ormai il campione indiscusso e indiscutibile del processo mediatico, delle maxi retate, delle maxi inchieste, dei maxi processi. Tutto il suo mondo giudiziario è maxi: grande, gigantesco e perciò stesso inafferrabile: ne sanno qualcosa gli indagati sbattuti, col massimo clamore, in prima pagina e poi puntualmente assolti; ne sa qualcosa il giudice Otello Lupacchini che, a seguito di una delle maxi operazioni sbandierate come un repulisti salvifico per la Calabria e il mondo intero, ebbe l’infelice idea di avanzare una timida critica sui metodi usati da Gratteri e fu selvaggiamente punito dalla consorteria dei manettari annidata dentro palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura.
L’altro ieri il magistrato – che è anche, va da sé, scrittore e prefatore di libri smaccatamente complottisti – ha fatto la sua comparsa nella confraternita dei duri e puri che vogliono ad ogni costo demolire la riforma approntata della ministra Marta Cartabia e mantenere in piedi le scempiaggini introdotte dal predecessore Fofò Bonafede, un giustizialista di scuola grillina, un forcaiolo di ultima generazione. Gratteri non ha definito “salvaladri” la riforma ma c’è mancato veramente poco. In cambio ha detto che se il parlamento dovesse dare via libera alla Cartabia, sarebbe la fine dell’antimafia e l’Italia diventerebbe un paradiso in terra per boss e picciotti di mafia, una terra promessa per gli affaristi sporchi di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, una enclave di impunità per i corrotti e i corruttori che da sempre affiancano la criminalità organizzata. “E’ una riforma che non serve alla sicurezza dei cittadini italiani, non serve a dare giustizia alle parti offese”, ha declamato. Ma il guizzo che inaugura un nuovo corso nei cieli alti della retorica e dello strapotere giudiziario è arrivato con una intervista al Domani. Il giornalista fornisce l’assist: gli ricorda che lunedì è stato celebrato il ventinovesimo anniversario della strage di via D’Amelio dove sono stati uccisi Paolo Borsellino e la sua scorta. E Gratteri, dal boccascena del suo palcoscenico, si esibisce subito in un monologo dai timbri grevi e baritonali. Godetevelo: “Per coerenza non bisognava andare a queste ricorrenze, i morti non si possono difendere, non possono parlare. Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma. Conoscendo la vita, l’integrità di questi grandi uomini che sono morti in nome di un’idea, io penso che non bisognava avvicinarsi nemmeno alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi”.
Neanche Chateaubriand, che pure si è trovato di fronte ad alcune delle più grandi tragedie della storia, ha mai usato nelle Memorie d’Oltretomba parole così vecchie e arrugginite, così cupe e tenebrose. C’è riuscito Gratteri. Nel suo furore da casta bramina ha trasformato Falcone e Borsellino in due attrezzi di scena – ricordate il teschio di Amleto? – e ha dato vita a un nuovo filone della drammaturgia pelosa: l’antimafia delle catacombe. Altro che Medioevo della giustizia. Altro che notte della Repubblica.