Ora che è finita in galera anche l’ultima cupola di Cosa nostra, ora che boss e picciotti sono stati mostrati in manette davanti alla caserma dei carabinieri, ora che l’infelicissima Sicilia è stata ripulita dall’ultima peste, ora che i fiori del male sono stati recisi e gettati nel nerofondo di un carcere duro a chi dovremo rendere grazie per averci finalmente liberato dal giogo mafioso?
Le forze dell’ordine hanno certamente i loro meriti. Per mesi hanno ricostruito complicità e trame oscure, hanno pedinato collusi e favoreggiatori, hanno spiato i movimenti dei mammasantissima e intercettato i discorsi di ogni affiliato; e alla fine, quando le prove sono apparse sicure e sufficienti, hanno organizzato in gran segreto la retata e hanno poi convocato una conferenza stampa per raccontare dettagli e retroscena, per mostrare le foto segnaletiche dei reprobi e quelle degli insospettabili, per sottolineare ancora una volta che lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Basterà dunque rendere grazie a carabinieri e polizia, ai procuratori, ai prefetti e ai questori che hanno seguito da vicino ogni fase della delicatissima operazione? No. Stavolta il trionfo del bene contro il male si deve anche a Santa Rosalia, la vergine patrona che da secoli veglia, partecipe e misericordiosa, sulle afflizioni e le tribolazioni di Palermo, la sua città. E’ alla Santuzza che va soprattutto indirizzato il Te Deum laudamus per questo nuovo miracolo, per questa nuova liberazione. E per averne contezza basta sfogliare la cronaca degli avvenimenti straordinari che hanno preceduto l’accerchiamento delle cosche e poi il blitz.
Siamo agli inizi del maggio scorso e nel carcere palermitano di Pagliarelli entra l’arcivescovo Corrado Lorefice con in mano la reliquia di Santa Rosalia. La missione è quella di avvicinare i detenuti alla parola di Dio e di dare loro il conforto della chiesa di Cristo. L’incontro scivola con la morbidezza che solo i sacerdoti sanno dare al dialogo su un argomento ruvido e rasposo come la mafia. E su quella morbidezza si posa, umile e salvifica, la scintilla di un pentimento. Fiat lux: è il miracolo. Tra i carcerati di Pagliarelli c’è un malacarne di mezza tacca, Andrea Lombardo, che non è un boss ma neppure un quaraquaqua: si porta addosso una condanna per omicidio e il sospetto di essere a capo della famiglia mafiosa di Altavilla Milicia, uno dei mandamenti che dopo la cattura di Riina e Provenzano, padrini dei sanguinari corleonesi e di tutta la mafia siciliana, erano stati abbandonati al loro destino. Quando il vescovo gli avvicina la sacra reliquia, Andrea Lombardo chiede di essere ascoltato in privato. Accanto a Lorefice c’è padre Filippo Sarullo che ora dice messa alla Cattedrale ma che per tanti anni è stato parroco di Altavilla. Il detenuto lo riconosce. Il dado è tratto. Dal bacio della reliquia alla confessione il passo è breve. Lombardo ammette di essere un mafioso, accusa di omicidio pure il padre, e si mette a disposizione per rendere ai magistrati piena e totale testimonianza sugli impenetrabili segreti di Cosa nostra.
A monsignor Lorefice e a padre Sarullo non resta che prendere atto del miracolo: il mysterium iniquitatis, il mistero del male, si era sciolto davanti alla Santuzza manco fosse il sangue di san Gennaro. “Sì, mi sono pentito perché il bacio della reliquia mi ha dato la forza che prima non riuscivo a trovare”, ha ammesso Lombardo quando si è trovato di fronte ai pm della procura di Palermo. E così dicendo ha rivelato i nomi di altri mafiosi della provincia e ha fornito il necessario riscontro al sospetto che le cosche, dopo anni di incertezze e smarrimenti, avessero trovato l’intesa per ricostruire la cupola. I carabinieri hanno piazzato le microspie e dopo mesi di indagini hanno scoperto che il boss indicato come successore di Salvatore Riina, meglio conosciuto come “Totò ‘u curtu”, era il vecchio Settimo Mineo, ufficialmente gioielliere, la cui esistenza puzzava di mafia e malaffare già negli anni Ottanta, quando il giudice Giovanni Falcone, lo aveva incastrato e inserito tra i quattrocento e passa imputati del maxi processo.
Dopo avere scontato la pena, Mineo però non si era ritirato a vita privata. Anzi. Riannodati i fili delle vecchie amicizie, era sul punto di ripristinare l’ordine delle cose maledette con nuovi eserciti e nuove gerarchie. Ma sulla strada dei suoi progetti e delle sue nefandezze ha trovato un ostacolo insormontabile: Santa Rosalia. La Vergine, che già nel 1624 aveva salvato Palermo dalla peste, ha steso un manto protettivo sul popolo dei devoti anche in questo greve 2018. Ha illuminato la mente di Andrea Lombardo e, da par suo, ha creato le condizioni perché le ultime radici della gramigna criminale venissero estirpate e buttate al macero.
Certo, Mineo non era a capo di una mafia arrogante e stragista come quella che, tra il 1992 e il ’93 seminò sangue e terrore da Capaci a via D’Amelio, da Palermo e Roma fino a Firenze.
Amministrava – pericolosamente amministrava – i rimasugli di un’organizzazione violenta e malsana, a tratti persino stracciona, che intimidiva quartieri e mandamenti, che esercitava ricatti ed estorsioni, che imponeva pizzo e guardianie, che soffocava qualsiasi attività; e se non trovava obbedienza e sottomissione era pure capace di incendiare negozi e capannoni, di far saltare in aria i cantieri edili e, se il caso, di uccidere.
L’arcivescovo Lorefice, che pure avrebbe potuto salire sul pulpito e intonare un’omelia di ringraziamento all’amatissima Santuzza per il miracolo ottenuto nel carcere di Pagliarelli, ha preferito battere la strada della discrezione: ni muy atras ni muy adelante, raccomandavano i prelati spagnoli, né troppo avanti né troppo indietro; e da buon cristiano – oltre che da buon ragusano: viene da Modica, dalla terra di Gesualdo Bufalino – “ha fasciato di lana e di felpa gli zoccoli dei cavalli dell’Apocalisse”. Peccato. Forse una processione si poteva pure inventare.
Proprio in questi giorni al Palazzo Reale di Palermo, che fu magnificenza e splendore dei conquistatori normanni, la Fondazione Federico II espone un quadro nel quale un pittore ignoto, ma di raffinatissimo intuito, fissò la sontuosa processione promossa nel 1693 dalla chiesa palermitana come supremo atto d’amore e di fede verso Santa Rosalia. In quell’anno funesto, un terremoto di esorbitante potenza aveva distrutto gran parte della Val di Noto, da Scicli a Ibla fino all’estremo sud della Sicilia. Palermo, nonostante i tremori e le paure, era rimasta sostanzialmente integra e non ci fu confraternita o ordine religioso che non volle accodarsi all’arca d’argento che, attraversando i quartieri della città, dal Cassaro alla Vucciria, mostrava ai fedeli le reliquie della Santuzza.
L’ignoto pittore, per fissare la solennità del momento, mette insieme i prospetti degli edifici più significativi di Palermo, come a certificare la loro solidità e la loro imponenza nonostante le scosse avessero a lungo flagellato le mura. E nella lunga strada a serpentina che attraversa i palazzi e le chiese, i collegi e i conventi – dipinti uno accanto all’altro come un picchetto d’onore in alta uniforme – ecco scorrere, supplici e benedicenti, Sua Eminenza reverendissima il Cardinale con il Capitolo della Cattedrale, i sacerdoti e i chierici, i gesuiti e i domenicani, la confraternita delle Coronate e quella di Nostra signora della Soledad. Devozioni e spagnolismi d’altri tempi.
Oggi, se mai l’arcivescovo di Palermo dovesse promuovere un così lungo corteo per glorificare ancora una volta Santa Rosalia, la Vergine appena diventata Nostra Signora dell’Antimafia, quali confraternite potrebbero avvertire il dovere di incolonnarsi, genuflessi e penitenti, dietro la reliquia del miracolo?
Spinti da un debito di riconoscenza dovrebbero forse collocarsi alla testa della processione, con turiboli e paramenti, le tante associazioni antimafia che hanno indubbiamente il merito di dibattere ed elaborare le migliori strategie per sconfiggere Cosa Nostra, che sono sempre e comunque testimoni coraggiosi di un impegno civile, ma che al contatto con la realtà finiscono purtroppo per mostrare limiti e insufficienze. A cominciare da padre Cosimo Scordato, un prete di frontiera che esercita il suo magistero a San Saverio, nel cuore di Ballarò.
Nella sua parrocchia puntualmente arrivava e puntualmente partecipava alla messa della domenica Settimo Mineo, il gioielliere che si era candidato a diventare il capo dei capi di Cosa Nostra. Non solo. Il boss, che appariva sinceramente contrito dei vecchi peccati, si impegnava pure nel volontariato, metteva in pratica l’insegnamento di papa Francesco e mostrava rispetto e solidarietà nei confronti di tutti, a cominciare dagli ultimi. Ma a padre Scordato, che pure ha fatto dell’antimafia un comandamento irrinunciabile del proprio magistero ecclesiastico, non è mai sorto il dubbio che dietro l’angelo potesse nascondersi un diavolo. Saldamente legato all’invocazione di San Paolo, Caritas Christi urget nos, credeva nella redenzione anche dei mafiosi e quando ha letto sui giornali la notizia della retata è rimasto ovviamente spiazzato e con le manine alzate come un pastore del presepe. Santa Rosalia poteva illuminare lui, invece ha preferito toccare il cuore di Andrea Lombardo, mezzo boss di Altavilla Milicia, rinchiuso per omicidio nel carcere di Pagliarelli.
Ma non c’è solo padre Scordato, sacerdote umile e timorato da Dio, tra quelli che dovrebbero inchinarsi davanti alla Santa Patrona di Palermo. Sopra il povero prete di Ballarò ci sono i professionisti dell’antimafia; e ancora più su ci sono i marpioni che, in nome della lotta a Cosa nostra, hanno costruito carriere e fortune politiche, hanno collezionato incarichi e consulenze, hanno conquistato la macchina di scorta e si sono adoperati fino allo spasimo non per combattere la mafia, ma per costruire teoremi, per diffondere l’immagine di una Spectre invincibile, per ipotizzare regie occulte e complicità di terzo livello, per intramare istruttorie improbabili, per sostenere che dietro ogni verità processuale c’è sempre un’altra verità ben più spaventosa e inconfessabile da disvelare. Sono i santoni che girano come trottole da un convegno all’altro, che si inebriano di interviste e talk-show, che non sanno nulla della cupola che muore o che risorge e che non vogliono sapere niente della mafia che taglieggia o che opprime. Se fosse per loro potrebbero vivere e sopravvivere dieci, cento, mille boss come Settimo Mineo. Ma per fortuna c’è Santa Rosalia con la sua dolce e infinita misericordia. Santuzza, salvaci tu.