L’anno scandito dai tormenti del Covid è coinciso col giro di boa del governo Musumeci. Già poco pratico di suo, e messo all’angolo dagli sviluppi di una pandemia che ne ha segnato pesantemente il cammino. Eppure alla squadra del governatore, più catanese e più “presidenziale” che mai, non sono mancati i numeri. Soprattutto a causa della scissione del Movimento 5 Stelle, che il 29 maggio scorso ha portato alla nascita di Attiva Sicilia. Un gruppetto di ex pentastellati che ne avevano piene le scatole di dire sempre “no”; così, nel solco creato dall’assessore Ruggero Razza, hanno cominciato a votare spesso con il governo, garantendo la tenuta di una maggioranza che si era dimostrata molto incline ai capitomboli. Come sui rifiuti. I cosiddetti “stampellisti”, che oggi, comunque, rivendicano autonomia di pensiero, ha mandato in fumo i piani di un’opposizione che sulla scia del governo giallorosso era diventata più coesa che mai. Il segretario regionale del Partito Democratico, Anthony Barbagallo, rivendica tuttora il “tradimento” degli ex grillini nei confronti del proprio elettorato, evidenziando come l’esito di questa legislatura sia fortemente condizionato dal loro voltafaccia.
Ebbene, il governo Musumeci ha i numeri, ma per gran parte di questo 2020 maledetto, ogni proposta è naufragata nel mare incerto delle buone intenzioni. Paradossalmente, è stato più facile trovare riparo nella pandemia, per non fare i compiti a casa. Analizzando le riforme che contano, appena una – quella sull’Urbanistica – è approdata sulla terraferma, con qualche impugnativa da parte dello Stato. Le altre, come l’edilizia e i soliti rifiuti, si sono affacciate all’orizzonte, ma restano tuttora in sospeso. Il governo ha preferito concentrare le proprie attenzioni sui diverbi con Roma – clamoroso quando Razza e Musumeci denunciarono il “complotto” per l’attribuzione della zona arancione – e su una Finanziaria che, però, ha rappresentato il più grande fallimento di quest’anno solare.
E pensare che alcuni assessori, e lo stesso Musumeci, l’avevano data in pasto ai rotocalchi come una “manovra di guerra”. Capace di aggiungere legna ai provvedimenti di ristoro del governo nazionale: oltre 1,5 miliardi per contrastare le conseguenze del Covid, che hanno tolto alla Sicilia 11 punti di Pil (and counting…). Ma niente: di questa Finanziaria, a causa della lentezza burocratica e di una procedura tutt’altro che all’avanguardia (ossia la rimodulazione di fondi europei “incerti”) ha lasciato tutti i comparti con la bocca asciutta. Così, dopo che centinaia di migliaia di siciliani hanno dovuto imbattersi sui ritardi della cassa integrazione in deroga – procedura che, durante la prima ondata, era di pertinenza regionale – tantissime imprese sono rimaste deluse dalla misura più poderosa della Legge di Stabilità, cioè quel Bonus Sicilia che da solo sarebbe valso 125 milioni. Peccato che il click day non abbia funzionato e le micro-aziende (fino a dieci dipendenti) si sono viste recapitare una mancetta da duemila euro a testa anziché gli imponenti prestiti a fondo perduto (fino a 35 mila euro) previsti inizialmente. Per il governo è stata una batosta sul piano della credibilità.
Nonostante il destino crudele, i soldini del Bonus Sicilia sono fra i pochissimi erogati. Soltanto una manciata di giorni fa, infatti, la Regione ha ottenuto il via libera per riprogrammare 1,2 miliardi da Roma. A cui ha presentato la documentazione necessaria in palese ritardo (otto mesi pieni) rispetto alla pubblicazione della legge in Gazzetta. Storie che puntualmente tornano in auge a cavallo del nuovo anno (o del Natale), quando Palazzo Chigi sente sempre l’esigenza di una tiratina d’orecchie a Musumeci e Armao. I quali, oltre a non saper fare le cose, vanno spesso fuori tempo massimo: come sulle paventate riforme che avrebbero dovuto presentare al Consiglio dei Ministri entro lo scorso marzo (termini poi prolungati a giugno), in cambio di una dilazione decennale del maxi disavanzo. E invece, nulla. L’emblema di una stasi eterna, che per la verità ha condizionato il presidente della Regione anche nel suo approccio alla dimensione politica di questo 2020 infausto.
Tutti pensavano che la mancata presentazione del simbolo alle Europee del 2019 fosse il punto apicale di un’incertezza conclamata. E invece no: perché Musumeci, dopo aver tenuto per sé l’interim di un assessorato per oltre un anno (dalla scomparsa di Sebastiano Tusa), ha deciso di assegnarlo al leghista Samonà – con furenti critiche fuori dal palazzo – solo nel maggio scorso. E proprio nei confronti della Lega, nei mesi a venire, ha costruito un rapporto di amore-odio che ora, o fra qualche mese, gli si potrebbe ritorcere contro. Il Carroccio è stato fra i protagonisti di questo 2020. Non tanto per la prestazione dello scorso ottobre alle Amministrative, dove è riuscita a stento a guadagnare qualche consigliere comunale. Quanto, piuttosto, per l’ingresso portentoso nei palazzi che contano, dove ha ricreato una classe dirigente che avrà l’onore e l’onere di rimpiazzare l’immagine ingombrante (ma calante) di Matteo Salvini. Non sarà facile.
Ma nel frattempo la Lega si è riorganizzata, completando la transizione da un segretario lombardo (Stefano Candiani) e uno modicano (Nino Minardo). Quest’ultimo, a gennaio, è stato fra gli artefici della creazione del primo gruppo di Alberto da Giussano all’Assemblea regionale. Originariamente formato da quattro deputati da ogni parte della Sicilia, che a causa di qualche dissapore interno si è subito dimezzato (Bulla e Caronia mal sopportavano certi modi “militareschi” nella gestione del partito). A rilanciare le ambizioni di radicamento territoriale, specialmente a Palermo, è arrivata da poco la Figuccia’s family. Le scelte di Musumeci, però, sono state condizionate dall’esuberanza leghista, che in primavera è riuscita a spuntarla per l’assessorato ai Beni culturali e all’Identità siciliana, assegnato al giornalista Alberto Samonà nonostante il riaffiorare di qualche scheletro “nero” dagli anni della giovinezza.
Sono sfumate, però, le nozze d’arancio con Diventerà Bellissima, il movimento di Musumeci. Che in questo senso aveva intrapreso un percorso, già dal 2019, per giungere a una federazione matura. Prima utilizzando la stampella di “Ora Sicilia”, che l’ex segretario Candiani ha giudicato del tutto stantia e inopportuna (e che non sarà più riconosciuta nemmeno come gruppo); e poi riempiendo Salvini di messaggi d’affetto. Lo scambio reciproco avrebbe garantito al Carroccio di prendere qualche voto in più alle Politiche, in cambio di un paio di seggi al parlamento. Ma quando tutto sembrava pronto, e persino il “capitano” aveva omaggiato il colonnello Nello delle sue attenzioni, è arrivato uno stop improvviso e deleterio. A causa di una rivolta di alcuni dirigenti che non avrebbero la sistemazione. Così la Lega ha ripiegato sugli autonomisti, mostrando una verve che nemmeno l’andamento lento del presidente in carica è riuscita a scoraggiare.
Oggi il Carroccio è al centro delle decisioni che, nei prossimi mesi, condizioneranno la vita politica della Sicilia. Dove Salvini, fra l’altro, è di casa. Quest’anno, al netto degli appuntamenti elettorali, si era già visto a inizio febbraio, al teatro “Al Massimo”, dove ha battezzato la nuova creatura all’Ars; e a palazzo dei Normanni, dove ha siglato la tregua con Gianfranco Micciché dopo gli schiamazzi sui migranti di qualche mese prima. E poi s’è rivisto a ottobre, in tribunale a Catania, per la celebrazione della prima udienza sul caso Gregoretti, in cui è accusato di sequestro di persona. Un’occasione tornata buona per celebrare alla Nuova Dogana una tre giorni simil-Pontida, e rafforzare l’immagine di un leader sempre più affaticato (non solo a causa dei processi). Scena che si è ripetuta prima di Natale: da Catania, questa volta, Salvini ha rilanciato l’ipotesi di governare, un giorno, la Regione. Un giorno non troppo lontano, sperano i suoi, dal momento che nel 2022 si vota, e che alla Lega – in base a una spartizione territoriale contestata, però, da Miccichè – potrebbe avere l’ultima parola sul candidato presidente.
Al di là dell’egocentrismo salviniano, questo 2020 passerà alla storia come l’anno di Forza Italia. Che in salsa siciliana – forse unico caso – funziona ancora. Ne sono prova le continue adesioni all’Ars, che hanno riproposto il tema del “rimpasto”. (da cui Musumeci stavolta non potrà sottrarsi). Gli azzurri sono al centro di una coalizione frastagliata, dove in tanti continuano a percepire la necessità di un grande centro: e mentre alcuni protagonisti della vita politica (soprattutto palermitani) indugiano su quale sia la formula migliore (una Carta dei Valori?) o sui tempi in cui uscire allo scoperto, Totò Cuffaro ha deciso per una netta sterzata. L’ex governatore, provato dal Covid, si è re-iscritto al grande agone, seppur consapevole di alcuni limiti. E’ interdetto dai pubblici uffici, e non è più candidabile (a seguito della condanna per favoreggiamento). Ma ciò non gli ha impedito di rinunciare al sogno di ricostruire la Democrazia Cristiana, di cui ha assunto le redini: è il nuovo commissario regionale.
Fra le scosse telluriche dell’ultimo anno di politica, silenziato dalle contorsioni a destra ma pur sempre dirimente, c’è il chiaro appiattimento del Partito Democratico sul Movimento 5 Stelle. E viceversa. In Sicilia, fra l’altro, questa corrispondenza di amorosi sensi s’è trasformata in un’alleanza organica alle ultime Amministrative, che ha visto primeggiare il “campo largo” del centrosinistra (cui aderisce anche Claudio Fava) a Termini Imerese. I due partiti, per la verità, ci arrivano con umori diversi: il Pd, che fatica a riappropriarsi di un numero sufficiente di consensi, è reduce da una profonda riorganizzazione interna, che a luglio ha visto la celebrazione di un congresso (finalmente) senza liti. Con l’affermazione di Anthony Barbagallo. Mentre i Cinque Stelle, rimasti acefali per l’addio di Cancelleri (prima) e la scissione all’Ars (poi), sono ancora in cerca di una reale identità, che non può essere garantita a vita dalle solite polemiche su pensioni e stipendi. Serve un atto concreto; un rilancio a oltranza di un’attività politica che anche da parte delle opposizioni non ha lasciato traccia.
L’unica cosa di cui rimane traccia è il Covid. E anche le ultime celebrazioni parateatrali sull’arrivo del vaccino, roba di ieri, ci confermano che nulla è andato come doveva. Ma che la Regione, col suo comitato organizzatore, ha sempre questa forza innata di rendere l’ordinario straordinario. Basterà?