Siamo al paradosso che persino Rosario Crocetta, artefice di una stagione di governo archiviata dalle aule dei tribunali (col processo Montante), torni sulla scena per difendere il proprio operato in tema di bilanci. “Durante il mio mandato sono stati regolarmente parificati”, ha detto. Suggerendo a Schifani di trovare i capri espiatori altrove. L’obiettivo, adesso, è ripetere in loop, fino allo sfinimento, che non esiste alcun “buco” e che non ci sono responsabili (tranne Crocetta). L’ha fatto il governatore, intervenendo alla kermesse di Fratelli d’Italia, domenica mattina: “Non c’è nessun buco, si tratta di un disavanzo di 2 miliardi che deriva dal governo Crocetta, dunque non ci sono responsabilità da parte degli esecutivi di centrodestra, né di Musumeci né del mio”. Troppo facile così.
Per rendere giustizia alla verità bisognerebbe riannodare i fili della storia, che parlano del mancato rispetto del decreto legislativo 118 del 2011 sulla contabilità armonizzata, della creazione di un enorme ‘disavanzo’ e del piano di rientro accordato alla Regione siciliana. Musumeci e Armao hanno dato per scontato, a seguito di un decreto legislativo del 27 dicembre ’19, di poter applicare al deficit una dilazione decennale. Ma secondo i magistrati della Corte dei Conti, come si evince dalla relazione di sabato, non è così. La spiegazione è intuibile: “Secondo l’esegesi già seguita da queste Sezioni riunite nell’esame del precedente esercizio finanziario 2019, la possibilità dell’ammortamento decennale era espressamente subordinata dal precetto normativo alla sottoscrizione, entro novanta giorni – a partire dal 27 dicembre 2019 e con scadenza il 26 marzo 2020 – di un accordo tra la Regione siciliana e lo Stato finalizzato a garantire il rispetto di specifici parametri di virtuosità mediante la concordata definizione di appositi interventi di riforma, verificandosi, in caso contrario, una riduzione del termine di ripiano da dieci a tre anni ai sensi del comma 2 del citato art. 7, nella versione vigente sino alla chiusura dell’esercizio 2020. L’Accordo in questione – concludono i magistrati – è intervenuto soltanto il 14 gennaio 2021, ben oltre il citato termine di novanta giorni” pertanto “il ripiano decennale non avrebbe potuto trovare applicazione negli esercizi 2019 e 2020”.
Questa è l’unica verità tangibile, messa nero su bianco dai giudici. Andrebbe detto, e spiegato anche ai fan più incalliti, che tutto il resto è oggetto di interpretazione, di scaricabarile, di esercizio d’assoluzione. Sia per Crocetta, che ha contribuito in maniera provvidenziale alla creazione di nuovo disavanzo, che per Musumeci e Armao, i quali hanno deciso di derogare alle ‘clausole di salvaguardia’ presenti nel decreto. L’accordo fra Conte e Musumeci, nel 2021, giunge a cose fatte. Fuori tempo massimo secondo la Corte dei Conti, che pertanto ha rinviato la questione alla Corte Costituzionale. Congelando, indirettamente, la parte della cifra mancante: cioè gli 866 milioni che il nuovo governo, però, non vuole assumersi la responsabilità di accantonare. Anche perché, materialmente, significherebbe dover produrre una Finanziaria lacrime e sangue, con tagli ingenti anche ai servizi essenziali.
Così, ecco la trovata: intanto, continuare a difendere in ogni sede l’operato di Musumeci e Armao, al di là di ogni ragionevole dubbio; e nel frattempo, individuare un altro escamotage che coinvolga il governo nazionale. Non il regalino cui faceva accenno Schifani – circa mezzo miliardo – per rientrare dalle maggiori spese di compartecipazione alla spesa sanitaria (quello è un vezzo, che probabilmente verrà accordato in futuro). Bensì, come spiega l’assessore Falcone, facendo venir meno il motivo del contendere di fronte alla Corte Costituzionale: “Non ci sentiamo obbligati ad accantonare 866 milioni, il pronunciamento della Corte dei Conti non è paralizzante – è stata la teoria del responsabile dell’Economia, avallata anche da Schifani -. Ci confronteremo col governo Meloni, con il Mef e con il Parlamento a cui chiederemo una norma interpretativa che dia ragione alla Regione siciliana”. E torto alla Corte dei Conti.
Ma di questo si occuperà la Regione. Resta fuori dal dibattito, invece, il resto del faldone da 800 pagine, dove i magistrati contabili contestano – in entrata e in uscita – circa 400 milioni di poste “irregolari”. Dando uno sguardo al dispositivo della sentenza, che sospende il giudizio di parifica, risultano “non regolari”: le entrate di competenza, i residui attivi, le spese di competenza, i residui passivi e una serie di impegni e corrispettivi pagamenti (tra cui 74 milioni, in quota interessi, per il reintegro del Fondo sanitario dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha condannato la Regione a rimpinguarlo). Ma anche e soprattutto lo Stato patrimoniale, il Conto Economico e il prospetto relativo al risultato d’amministrazione: il Fondo crediti di dubbia esigibilità non registra un maggiore accantonamento di 3 milioni; dal Fondo residui perenti ne mancano 25; dal Fondo perdite della Società partecipate 7; dal Fondo contenzioso 4. Secondo Falcone non avranno un’incidenza “impattante” sul prossimo Bilancio, ma forse andrebbero spiegate.
Tra gli argomenti più controversi ch’erano stati al centro del contraddittorio fra la Corte dei Conti e la Regione, in sede di pre-parifica, c’era anche il capitolo relativo al trasporto pubblico locale e alle conseguenze di una sentenza della Consulta che nel febbraio 2021 aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 13 della legge regionale n.13/2019 che consentiva una proroga contrattuale di 36 mesi del servizio di trasporto pubblico locale. Il capitolo di spesa relativo – spiega il pm nella requisitoria – “non è parificabile nella misura e nei limiti in cui ha registrato spese sostenute in applicazione del suddetto art. 13 per l’importo di euro 161.163.169,26. In presenza di un contratto nullo il privato potrà esperire l’azione di ingiustificato arricchimento e l’Ente pubblico potrà ripetere quanto versato in eccesso rispetto a quanto potrà spettare con l’azione di arricchimento”.
Un grosso punto interrogativo riguarda Airgest, cioè la compagnia di gestione dell’aeroporto di Trapani, vanto del precedente governo. Secondo i magistrati “le ulteriori delucidazioni fornite dalla Regione in merito alla società Airgest S.p.a, non hanno convinto, rimanendo in primo piano e incontestato il dato oggettivo di ricapitalizzazioni strutturate su perdite che si perpetuano dal 2014 (…) L’utilizzo della ricapitalizzazione ha comportato un aggravio di spese per l’amministrazione regionale a fronte del quale non è previsto alcun rimborso da parte della società”. Mentre nel rapporto credito/debito fra la Regione e gli organismi partecipati, l’Amministrazione ha tralasciato “di compilare le colonne relative ai residui attivi e passivi, con ciò non permettendo di entrare nel merito degli esiti della verifica e conciliazione dei rapporti”.
Si nota, inoltre, l’assenza di un censimento del patrimonio immobiliare regionale. Piaga atavica che i giudici sottolineano in blu: “Appare ancora irrisolta – scrivono – la problematica riguardante la “ricognizione straordinaria del patrimonio” e la conseguente “rideterminazione del suo corretto valore” (…) sia con riferimento alla classificazione delle voci del patrimonio, sia per quanto riguarda i criteri di valutazione. Il processo di ricognizione straordinaria prevista per l’avvio della contabilità economico patrimoniale è infatti ancora in itinere per tutte le tipologie di beni, sebbene la Regione abbia precisato di avere avviato sin dal 2016, in occasione dell’avvio della contabilità economico patrimoniale, la riclassificazione delle singole voci”. Qualche anomalia risulta pure sulla gestione dei fondi per l’emergenza Covid: “L’attività istruttoria si è rivolta alla verifica di quanta parte delle risorse comunitarie riprogrammate nel modo descritto nella relazione integrale, sia stata effettivamente certificata: gli esiti – scrivono i giudici – hanno restituito un dato prossimo al 50%, poiché su 400 milioni circa di variazioni finanziarie conseguenti alle riprogrammazioni, sono stati certificati circa 216,8 milioni di euro. Non è emersa, inoltre, con chiarezza l’esistenza di un coordinamento nell’impiego delle risorse, comunitarie e nazionali, erogate per l’emergenza sanitaria”. Di tutto questo, e di molto altro, chi risponderà? La solita Meloni?