L’agonia dei teatri: Palermo a due velocità

Diciamo la verità, pur con tutto l’affetto e la solidarietà nei confronti di artisti e tecnici del Teatro Stabile di Palermo: più “nannu” da Carnevale che desolata icona beckettiana, il “pupo” esposto davanti allo storico ingresso del Teatro Biondo, in via Roma, non si può proprio guardare. Una folata d’arte, un guizzo di fantasia, un colpo di reni dell’immaginazione – da artigiani di tutto ciò – avrebbe forse giovato a un’idea meno antiquata e folclorica della cassandresca metafora di uno stato agonico che il teatro di prosa cittadino preconizza in attesa dei soldi che il Comune – socio dell’istituzione ma alla canna del gas per conto proprio – non ha  elargito cercando di mettere un pannicello caldo, anzi tiepido, attingendo alla cassa della tassa per il turismo, soluzione che qualsiasi persona munita di buon senso avrebbe considerato goliardica boutade e mai spacciato come elisir miracoloso alla maniera di un Dulcamara qualsiasi. Ma tant’è.

Già che c’era, Dulcamara sarebbe pure transitato con la stessa boccetta – poca fatica, qualche centinaio di metri, basta risalire via Monteleone, piazza Olivella e via Bara – dal Teatro Massimo (meritevole di pari affetto e solidarietà) anch’esso in affanno per colpa delle casse comunali in secca, anche se lì, si sa, arrivano i dobloni dello Stato per le fondazioni liriche a mettere in sicurezza tutto (o quasi), laddove non vi siano buchi che, al confronto, quelli del manto stradale di via Volturno, che al tempio della lirica conduce, sono scalfitture sul pavimento quando vi cade sopra un vaso di cristallo.

Alti lai e, ovviamente, concerto di protesta che affratella dirigenti, maestranze, primattori e soprano, sindacati (che la loro parte in commedia devono pur farla) sulla scalinata del Massimo, che nell’immaginario della cultura cittadina è un po’ come, in un tempo ormai obsoleto ma nemmeno troppo lontano, le vetrine fuori moda ma comunque assai eleganti di Hugony e che in quello globalizzato dei social è la location di selfie carichi d’orgoglio anche per chi non l’ha mai scalata.

Certo, la preoccupazione è d’obbligo ma il pathos doveva forse già serpeggiare in tempi non sospetti e non solo in questa emergenza di casseforti asciutte come un deserto. Da quando cioè ci si sarebbe dovuti chiedere se la nozione e la funzione di cultura, a Palermo, fossero senso e non solo consenso, progetto e non solo programma, laboratorio e non solo teca. E, soprattutto, se la cultura potesse aver senso, definire un progetto, servire da laboratorio in una città che camminava all’incontrario o arrancava, dove la giustizia sociale era rimasta al palo alla faccia della massacrante fatica di quei pochi, generosi volontari anch’essi maltrattati o ignorati dalle istituzioni.

Non è questione di munnizza o di viabilità. La cultura non si può mettere a confronto con queste altre voci (lo fanno i demagoghi o i politici incolti) che sono il tallone d’Achille d’ogni grande città e di Palermo massimamente. È un altro genere di servizio pubblico, la cultura, pur ancora, il più delle volte, poco pubblico perché appannaggio di pochi. Se c’è uno scollamento tra la città reale e quella che la politica, attraverso la cultura, ha portato in primo piano, lo si deve al fatto che la città reale ha urgenze alle quali la politica, e la cultura che ne è stata manifesto, non hanno dato voce, come fossero una galassia a parte: equità, lavoro, salvezza dalla palude del degrado, dignità della vita affondata nelle sabbie mobili della burocrazia occhiuta o della dimenticanza, alfabetizzazione ancora, in pieno terzo millennio. La cultura, dentro e fuori i suoi bellissimi luoghi, avrebbe dovuto tener conto di questi temi, di questi bisogni, reclamare diritti per conto della città; certo, nel modo in cui sa fare, essendone anch’essa strumento, nella denuncia, nel traguardo fosse anche un sogno, accarezzando un’utopia. Ha invece, il più delle volte, titillato la propria vanità.

La città e la sua cultura hanno così camminato a diversa velocità, sospettose l’una dell’altra, o comunque guardinghe laddove tentassero di specchiarsi, anche in un riflesso deformante, l’una sepolta dalle proprie impellenze dimenticate dalla politica, l’altra affascinata dalle lusinghe o attanagliata dai ricatti della stessa. Che adesso bellamente se ne scorda, mostra le tasche vuote, tira fuori come può pochi spiccioli. E tutti, come la conoscessero da ieri, a stupirsi tardivamente, a fare ooohhh tra imbarazzo e ipocrisia, dai palcoscenici ai foyer, alle scalinate monumentali. Uno ooohhh ben diverso da quello di quei ragazzini dello Zen 2, quando qualcuno li fece uscire dal loro quartiere e li portò in giro per la città con un pulmino e scoprirono che a Palermo, minchia talé, c’era anche il mare.

Totò Rizzo :

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