Bruxelles è un posto bellissimo per i politici, ma siamo così certi che l’assessore Marco Falcone, dopo il fresco successo della Finanziaria (ha evitato l’esercizio provvisorio per la prima volta dopo 21 anni), abbia la voglia e il coraggio di andare a svernare al Parlamento europeo? Specie se il presente, fra due o anni o tre, potrebbe consacrarlo come il naturale candidato alla presidenza della Regione?
C’è ancora qualche settimana per decidere sulle candidature, ma le parole di Falcone (“Non so se ci sarò alla prossima manovra”) – e quelle di alcuni suoi rivali-estimatori – lasciano presagire la volontà del diretto interessato ci sia tutta. Che l’assessore, reduce da una parte della legislatura un po’ martoriata, dove la riconoscenza di Schifani è da poco subentrata alle umiliazioni, potrebbe essere la punta di diamante della lista di Forza Italia. Assieme al collega Edy Tamajo, rispetto al quale – forse – avrebbe meno voti, ma certamente più voglia di rimanere in Europa senza rinunciare al seggio.
Falcone, a 53 anni, aveva superato indenne la prima prova di fuoco: da assessore alle Infrastrutture del governo Musumeci. Era stato lui a finalizzare gli accordi per l’avanzamento dei lavori sulla Siracusa-Gela (oggi desolatamente sospesi) e numerosi altri interventi che l’avevano reso popolare anche al Ministero delle Infrastrutture, dove il grillino Giancarlo Cancelleri tesseva le sue lodi. Legato all’ex governatore, ha dovuto rimboccarsi le maniche col nuovo inquilino d’Orleans, e anche oggi rappresenta l’eccezione di lavoratore indefesso all’interno di un esecutivo poco incline all’amministrazione e ai risultati. Assieme a Galvagno e Sammartino, che hanno meno anni di lui, potrebbe garantire prospettiva e pragmatismo alla Sicilia: sono stati definiti il “tridente” di Schifani, anche se con Schifani c’entrano il giusto. Nel senso che il governatore, almeno nel caso di Falcone, ha seminato il percorso di ostacoli, a cui il forzista è sopravvissuto quasi per miracolo.
Alle sue doti di abile diplomatico, ha dovuto associare una capacità di sopportazione senza precedenti, quando, durante una tempestosa riunione di giunta, si oppose alla nuova mappatura delle Camere di Commercio (che, col senno di poi, nascondeva ambizioni di potere sul destino della Sac e di Fontanarossa) e votò dichiaratamente contro. Ma prima di allora, ha dovuto patire sulla propria pelle la predisposizione al “parlamentarismo”, qualità rammentata dallo stesso Schifani nel giorno delle dichiarazioni programmatiche all’Ars e poi puntualmente disattesa: è col parlamento, e specie con le opposizioni, che Falcone ha trovato l’accordo per mandare in porto, a marzo dell’anno scorso, la prima Finanziaria della nuova era. Un’accelerazione dovuta ai rapporti privilegiati con Cateno De Luca (che gli ha “promesso” l’incarico di ragioniere generale quando a comandare sarà lui) e con i Cinque Stelle, rassicurati dal modus operandi e dal margine d’iniziativa concesso loro.
E’ proprio l’elemento della collaborazione e dell’apertura che ha finito per deprezzarlo agli occhi di Schifani, mentre l’impugnativa di Palazzo Chigi di una parte consistente della scorsa Finanziaria (quella degli 800 milioni a valere sui fondi europei) gli è costato il ritiro della delega alla Programmazione e il commissariamento con Gaetano Armao, che a differenza di Falcone era reduce da cinque esercizi provvisori e un conflitto persistente con la Corte dei Conti. Falcone è uscito da questa spirale negativa e umiliante grazie al lavoro, alla pazienza, alla tolleranza. E con le medesime caratteristiche che lo avevano portato alla ribalta agli occhi dei detrattori (di entrambe le coalizioni): è iconico il selfie dell’inciucio scattato in commissione Bilancio, tutti belli e soddisfatti, alla vigilia della discussione del Ddl Stabilità in aula. Alla fine della prodigiosa sceneggiatura, è riuscito a guadagnarsi una menzione d’onore per la “grande competenza e lealtà” e per aver lavorato “con impegno e senza sosta, fin dall’insediamento, per arrivare a questo obiettivo”. Meglio tardi che mai.
Anche se, in termini di prospettiva, Schifani è un capitolo chiuso della storia di Falcone. Archiviato lo scorso novembre dal palco di Taormina, quando alla corte dell’assessore e commissario etneo di Forza Italia, si presentò lo stato maggiore del partito: dal capo della Farnesina e segretario nazionale Antonio Tajani, passando per il sempreverde Maurizio Gasparri e per tutti i ministri di grido. E’ stato un coro unanime di apprezzamento per quello che fu allievo di Stancanelli ai tempi di Alleanza Nazionale. E che oggi, dentro Forza Italia, fa e disfa la tela del “leader” di turno: prima Micciché ora Schifani. Sulla mancata apertura delle liste di FI ai cuffariani (“perché il partito non è un autobus”), ha vinto la sua linea. E quella decisione, sublimata dalla visita di Caterina Chinnici, nel nome dell’antimafia, è stato il turning point del partito dell’Isola, nonostante Marcello Caruso si atteggi ancora a coordinatore. Ma de che?
Falcone rappresenta il contraltare di Schifani: sul piano politico e personale. Sa dialogare con gli uomini dentro e fuori dal suo partito, senza alimentare inutili rancori; sulla Finanziaria, ha saputo legare insieme quelli che contano (dal presidente dell’Ars a Cateno De Luca, evitando al governo sputtanamenti di sorta) e fatto quadrare i conti; ha saputo accontentare i 70 deputati, senza farsi condizionare dalla percezione marchetto-centrica con cui è stato partorito il maxi emendamento stralciato, in volata, dalla Legge di Stabilità (quello dei piccioli ai territori) e approvato a parte. Deciso e imperturbabile, è uno che parla coi fatti. Uno dei pochissimi con abilità di governo. Che non soffre di egocentrismo, ma preferisce lavorare a testa bassa, consapevole che prima o poi arriverà il suo turno. Dovrà solo scegliere se continuare a brillare a Palermo (per lui che è catanese); o imboccare altre strade che passino, comunque, da una consultazione elettorale ad ampio raggio e ad alto rischio.