La trattativa di Bengasi

Da sinistra, il premier Giuseppe Conte e il Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Volati in Libia per liberare i pescatori

Cosa ci sono andati a fare Conte e Di Maio a Bengasi? A trattare, per di più, con il generale Haftar, il cui governo non è riconosciuto dalla comunità internazionale? E soprattutto – se è davvero merito loro – con quale capacità di persuasione hanno convinto le milizie libiche a lasciar andare 18 pescatori dopo 108 giorni di prigionia? Tutte domande a cui il presidente del Consiglio dovrà dare risposta. Non prima dell’arrivo dei marittimi, previsto nella giornata di domani; magari al prossimo appuntamento pubblico, prevedibilmente la conferenza stampa per annunciare i provvedimenti restrittivi sul Natale. Un altro tema offtopic – come la questione relativa alla cenetta con la compagna Olivia e all’utilizzo improprio della scorta da parte di lei – per fugare i dubbi che si addensano su Palazzo Chigi. La questione, al netto della soddisfazione per la liberazione degli ostaggi, lascia parecchie domande inevase. E legittima un governo che governo non è. Quello del generale Haftar, che ha creato una struttura parallela rispetto all’esecutivo di Tripoli, e per farsi notare usa le mitraglie.

Terminata la sbornia, giustificata, di questi giorni, quando i pescatori di Mazara potranno riunirsi alle famiglie per passare (forse) il più bel Natale della loro vita, ci rimarrà addosso la spiacevole sensazione di averli consegnati al “nemico”. Haftar, per quasi quattro mesi, ha tenuto in ostaggio 18 persone di due equipaggi battenti bandiera italiana. Finiti prigionieri durante un’attività di pesca ritenuta “illegittima” (dai libici). Bisogna capire quanto l’impegno (innegabile) della diplomazia e dei servizi abbia coinciso con l’impegno della politica e con la sua voglia di vetrina. Sul governo sono arrivate bordate di fischi al rientro dalla Libia: da parte delle opposizioni e, in particolare, dalla Sicilia “cazzuta”, immarcescibile terra di frontiera, che fino a qualche giorno fa si interrogava sulla possibilità di calendarizzare all’Ars un dibattito sulla questione. Poi il presidente Micciché ha rinviato la decisione al Consiglio di presidenza “perché potremmo fare più danni che altro”. Ma chi l’ha intercettato in maniera informale, nelle ultime settimane, si era accorto di una vena polemica che ieri è esplosa.

Alla notizia che Conte e Di Maio s’erano imbarcati per la Libia, e ormai appurato della liberazione, Miccichè è sceso in campo con la fanteria pesante, mettendo nel mirino il Ministro degli Esteri: “Questi qua vivono di demagogia e pensano di prendere in giro il mondo – ha dichiarato il presidente dell’Assemblea -. Vanno pure con l’aereo del premier e il ministro degli Esteri. Cosa che non succederebbe in nessun altro paese del mondo”. E poi l’affondo: “Voglio sperare che l’accordo che hanno chiuso prevede che in cambio del rilascio dei pescatori, il ministro Di Maio resti lì, altrimenti è incomprensibile. Voglio pensare che stanno partendo in due – ha proseguito Miccichè preso dalla foga – perché hanno chiuso un accordo per il rilascio dei pescatori in cambio di Di Maio”. Parole che, ovviamente, non sono piaciute al Movimento 5 Stelle e a Giancarlo Cancelleri, deus ex machina dei grillini nonostante la lontananza fisica da Palermo. Che ha replicato più o meno così: “Questo è Micciché: una vergogna!”.

Ma fra le righe di Facebook si coglie un’altra dichiarazione che fa balzare sulla sedia, qualora fosse vera. E cioè: “Conte e Di Maio non c’entrano assolutamente nulla con la liberazione”. Mentre, pochi minuti dopo, Micciché pubblica una missiva, in cui le famiglie di quattro pescatori ringraziano il presidente dell’Ars e Berlusconi “perché ci sono stati vicini dall’inizio di questa terribile storia” e il “loro supporto e vicinanza è stata fondamentale”. Micciché, tramite il Consiglio di presidenza dell’Ars, aveva deliberato un primo contributo da 2 mila euro per le famiglie dei pescatori rimasti a terra. E la politica siciliana ha fatto quel che ha potuto: poco sul piano della diplomazia (non sono mancati gli striscioni alle finestre, un’iniziativa che ha coinvolto anche i Comuni); abbastanza su quello economico. Anche Musumeci, che non poteva esimersi dalla ricerca di un po’ di gloria – stretto alle corde, com’era, dai nemici ‘ra cuntintizza – l’ha fatto immediatamente rilevare: “Le istituzioni, tutte insieme, abbiamo lavorato per la soluzione di una vicenda che ha tenuto nell’angoscia le famiglie dell’intero equipaggio e la Sicilia tutta”.

In particolare, palazzo d’Orleans, ha spiegato in una nota come “su proposta del governo Musumeci, nei giorni scorsi, il Parlamento regionale ha destinato 150 mila euro in favore delle famiglie dei pescatori e degli armatori delle due imbarcazioni fermate dai libici”. Anche la chiosa di Musumeci, però, getta un’ombra sul metodo che, va da sé, non intralcia la felicità: “Non poteva esserci miglior regalo di Natale. Questo conta di più di ogni altro discorso. Sul metodo seguito ci sarà tempo per parlarne”. Segno che qualche spiegazione dovrà maturare: perché oggi e non prima? Ma servivano davvero 108 giorni di prigionia? Sul perché del viaggio a Bengasi, infine, da ridire anche Davide Faraone, presidente dei senatori di Italia Viva – e quindi, attuale alleato di governo della magica coppia – che commenta: “Ognuno ha il suo stile. A noi, in generale, lo stile adottato da Casalino per il presidente del Consiglio non ci piace”.

Fosse solo una trovata propagandistica, che non nasconda ricatti, convenienze o secondi fini, andrebbe anche bene. Ce ne laveremmo le mani con una pernacchia. Se ci fosse dell’altro, che condiziona (o ridimensiona) il peso politico dell’Italia nel Nordafrica, allora sarebbe diverso. In questo tourbillon di ipotesi, tutte da scandagliare bene, emerge un distinguo. Gli ex grillini di Attiva Sicilia, che qualche giorno fa avevano tuonato in aula contro l’immobilismo di Di Maio, oggi lo escludono dai ringraziamenti: “Il ritorno a casa dei pescatori di Mazara del Vallo è la notizia più importante che i siciliani attendevano. Si chiude così una vicenda che da giorni vede impegnato in prima persona il Presidente Giuseppe Conte e che proprio in virtù di ciò ha determinato un esito positivo. Per tale motivo – scrive il parlamentare Sergio Tancredi, mazarese come i pescatori liberati – desidero che al Presidente del Consiglio arrivi il plauso e la nostra gratitudine, certo di interpretare i sentimenti dell’intera comunità siciliana”. Certi amori fanno giri immensi e poi… non tornano.

Musumeci: “Serve un’azione diplomatica in sede internazionale”

“Non c’è più tempo da perdere: la dolorosa vicenda, a lieto fine, del sequestro dei pescatori siciliani da parte delle autorità libiche impone, in termini ormai non più procrastinabili, una decisa azione politica e diplomatica del governo italiano in sede internazionale”. Lo scrive il governatore Nello Musumeci in una lettera inviata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ricordando come “da oltre mezzo secolo i nostri pescherecci vanno a lavorare nel mare Mediterraneo mettendo a rischio la propria sicurezza e, per ben tre volte, pagando con la vita le aggressioni delle motovedette tunisine e libiche”. Secondo il presidente della Regione “va definita una volta per tutte sia la delimitazione del cosiddetto Mammellone, nel mare antistante la Tunisia, sia la Zona economica esclusiva che la Libia ha spostato arbitrariamente oltre 65 miglia in avanti. Pretese insostenibili, che finiscono per colpire solo la marineria isolana, sempre più vittima di angherie e soprusi da parte dei due Paesi nordafricani”.

Nella sua lettera al premier, Musumeci ha sottolineato “la necessità che Conte chieda all’Unione europea di smetterla di girarsi dall’altra parte e di intervenire finalmente, in maniera risoluta, con un efficace ruolo di mediazione. I nostri pescatori – conclude Musumeci – sono stanchi di essere considerati pirati nel loro mare”.

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