Una città come Palermo.
Una città straordinaria fatta di carne, femmina viva.
Femmina soggetta, però.
Cagna con museruola.
Meravigliosa e impossibile.
Invivibile, col sangue che scorre al posto dell’acqua e quando non scorre diventa putrido e putrescente.
Una città spaventata dalla propria stessa libertà.
Illetterata e fremente.
Porto, angiporto, puttana.
Bambina adottata.
Donna inconsapevole.
Priva e traboccante di sé stessa.

Passano anni e giunge un paladino con un nome antico.
Un nome che c’è stato sempre. La città lo riconosce.
Il paladino sa fin dall’inizio che può essere inghiottito masticato sputato da quella città feroce e ferina.
Lo sa.
Lui conosce la sua lingua, sa interpretare i suoi ruggiti, sa comprendere i suoi languori.
Lui è lei.
Lei lo riconosce ringhiando guardinga e assetata di sangue e d’amore.
Lui la vive, lui la è, da dentro e da fuori.
La incanta, l’assoggetta, le dà voce quando lei geme.
Le dà spazio, la tiene a freno, la magnifica, la spaventa, la esalta, la interroga, la invoca.
Lui la sa, la sente, la evoca, non ha paura di esserne aggredito, perché ha il cuore dall’altra parte.
Lui a volte la illude, come lei illude lui, seduttiva.

Lui la guida e l’ama, con quei capelli unti che sembrano grasso che cola.
Grasso di maiale, grasso dei mercati, grasso del festino.
Viva Palermo e santa Rosalia, lui grida ogni anno, salendo sul carro dei vincitori.
Lei freme, gode a quel grido, non si trattiene, né potrebbe.
Perché lei lo riconosce.
Perché lei lo ama.
Perché lui è un vincitore ma è identico a lei.
Vincitore perdente.
Tutto quello che lui è, è solo perché è fatto di lei.
Lui, potente e sincero, borghese e canazzo di bancata, lui, col nome che risuona di una antica chanson de geste.
Orlando.
Lui.
Pupo, lo chiamano dopo che passano anni e anni.
Pupo. “Si è venduto le strade”, dicono i suoi miserevoli impotenti invidiosi detrattori, loro che di Palermo non sanno che il nome, e nemmeno quello.

Lui che negli anni assume sempre più il volto delle ville settecentesche.
Le ville meravigliose, da restaurare, che cedono pian piano al tempo e a sé stesse. Ville come quella che lui sceglie come sede istituzionale.
Ville di pietra e terra cotta, ville di luce e colori, ville di quei mostri che non si vedono eppure mostrano l’indicibile.

Cede pian piano, il suo volto bello, allo stesso modo delle facciate e dei valori antichi.
La pietra si smussa e si cancella sotto la goccia implacabile che la scava e la erode.
Ma il ciuffo unto, un tempo corvino, rimane, le spalle larghe pure, la pancia si gonfia di tutto ciò che non si può digerire.
La mano sul cuore se la mette ancora, ma dalla parte vuota, per non farsi male, perché lui ci crede al cuore, alla parola data, e l’accento è sincero, e la voce è tonante.
Ancora.
Sempre.

Orlando non morirà mai.
È lui il genio della città.
Un serpente lo divora mentre lui nutre serpenti.
Ma il suo viso è scultura del tempo, faccia e facciata, baluardo.
È storia, passato illustre, presente corrotto, stanchezza, degrado.
Lotta.
Luce e ombra.
Speranza, viscere.
Cuore.
Illusione e delusione cocente.

Orlando siamo noi e lo saremo anche dopo.
Dopo che sarà dimenticato.
Gelsomino e munnizza, parole e sangue, cuore e viscere spostati, in fuga dal proprio stesso corpo, per non farsi centrare.

Sarà dimenticato, cancellato dalla mente.
Pestato sotto i piedi, come racina, per fare vino, per fare sangue.
Ma sarà sempre ricordato.
Nel cuore sarà sempre, perché appartiene alla città.
In bene e in male.
Quella città che lo ha acclamato e ora, dopo trent’anni, lo calpesta.
Con lo stesso moto.