Quelli creati dalla commissione nazionale di garanzia al Pd potrebbero essere danni irreparabili. Ma anche il resto della politica siciliana non naviga in acque placide. Da Forza Italia ai popolari, passando per Musumeci (nonostante la campagna acquisti), vivono tutti una fase complicata. Un riposizionamento che non ha nulla di politico, ma molto di partitico. In cui le idee (poche) si schiantano sulla realtà dei numeri e rendono farraginosa l’azione di governo.
Se alcuni vedono nella cacciata di Faraone una buona occasione per rifarsi una verginità (ripartendo dalla base e celebrando i congressi provinciali), l’ex segretario ha lanciato più di un’ombra sulla ricostruzione del Partito Democratico: chiamando in causa alcuni dirigenti e tirando fuori l’ipotesi di un accordo coi Cinque Stelle. Per questo le vicende che attanagliano i “dem” al di qua dello Stretto, rischiano di avere effetti collaterali nel continente: sia Faraone che Renzi, in queste ore, hanno puntato il dito contro Dario Franceschini, uno degli artefici dell’attuale sconquasso. Mentre l’ex ministro ai Beni Culturali, che ha dato la disponibilità a diventare commissario del partito in Sicilia, ieri spiegava al Corriere della Sera che i grillini sono diversi dalla Lega e “insieme possiamo difendere certi valori”, in Sicilia prendeva la parola Giuseppe Lupo, franceschiniano doc, che più o meno affermava il medesimo concetto: “Con il Movimento il dialogo è possibile, persino necessario”. Faraone, appena qualche giorno fa, sull’ipotesi si era espresso con una “vaffa”. Divergenze. Insanabili.
In Sicilia il Pd è un partito morente, con una base elettorale che solo un paio di mesi fa, alle Europee, aveva ripreso a respirare. Il 16,6% toccato nell’Isola, a qualche decimale da Forza Italia, era il risultato di una tregua armata, durata un paio di mesi a cavallo delle urne, e di candidature autorevoli, che Faraone e Zingaretti avevano pescato dalla società civile: vedi Bartolo, i sindaci o la Spicola. L’unica chance per non essere inghiottiti dalle contraddizioni. Prima dell’esito del congresso, terminato con la vittoria di Faraone per il ritiro di Teresa Piccione, sua unica competitor, era andata in scena una campagna pestifera, in cui un gruppetto di renziani all’Ars avevano manifestato il proprio dissenso per le posizioni di Lupo, attuale capogruppo del Pd in assemblea, e sostenitore della Piccione. La richiesta di chiarimenti non ebbe alcun seguito, non formalmente.
Adesso la questione potrebbe tornare a galla, anche se i “dissidenti” non sarebbero più sei. La Lantieri ha tagliato la corda, tornando nell’agone del centrodestra, dove potrebbe finire anche Cafeo; Dipasquale si dimena nel mantenere l’equilibrio, professandosi sostenitore di Faraone da un lato e Zingaretti dall’altro (“Ma non ho correnti” ha spiegato l’ex sindaco di Ragusa); i “renziani” puri sono rimasti Sammartino, De Domenico e Catanzaro, mentre gli altri – fra cui Cracolici – sono dalla parte di Lupo, nonostante i dissapori del passato. Ma anche fuori dal parlamento è un gran caos, tra personalità ingombranti (Lumia e Crisafulli, che Faraone continua a chiamare “padroni delle tessere”) e giovani rampanti in cerca d’autore (Rubino e Raciti, all’ultimo giro col segretario defenestrato). Alcuni di questi – in primis Sammartino – aveva cercato di intessere una discussione con Forza Italia (altro che Cinque Stelle) e c’era persino riuscito in alcuni comuni per le Amministrative.
Ma la struttura interna di Forza Italia è fragile, infettata dalla prepotenza leghista e da un logoramento ai fianchi da parte degli uomini di Musumeci. Pure Forza Italia, per ciò che è invisibile agli occhi, ha le sue grane da risolvere: la prima di chiama Gaetano Armao. Qualche giorno fa, per la prima volta da quando è stata inaugurata la legislatura, ha preso parte a una riunione parlamentare del gruppo. S’è seduto tra i “nemici” di un tempo, ha parato i colpi, ha promesso di cambiare. Gianfranco Micciché, che nell’ultima campagna elettorale lo aveva definito un ex assessore, potrebbe concedergli un’altra chance, a patto di remare tutti dalla stessa parte. Il comportamento del vice-governatore è sotto la lente di ingrandimento. FI, d’altronde, è un partito che non avrebbe bisogno di altri smottamenti: di recente sono andati via Pogliese e i catanesi, che hanno trovato riparo in Fratelli d’Italia, così come la deputata regionale Rossana Cannata; ha fatto le valigie Genovese jr, nuovo capogruppo di “Ora Sicilia” e stampella di Musumeci. Quello azzurroresta il gruppo più significativo della coalizione di governo – 10 deputati – ma non può perdere altri soldati.
Sempre nella maggioranza, si registrano altri mal di pancia. I centristi sono insorti di fronte al “mercato delle vacche” del presidente della Regione – la definizione è di Saverio Romano – che ha sottratto al gruppo forze fresche (Daniela Ternullo). Si è passati dalla fase 1, quella del “siamo con Musumeci senza se e senza ma”, alla fase 2, “la fiducia bisogna meritarsela”. Sotto la cenere cova sempre la disfida interna per ottenere un assessorato in più, che l’ex governatore Raffaele Lombardo crede di meritare in virtù di una rappresentanza parlamentare più ampia. E, terzo elemento da non sottovalutare, Romano ha smesso di parlare con Micciché, il primo degli alleati, dopo la “guerra delle Europee, dove il leader di Cantiere Popolare è rimasto fuori da Bruxelles e Strasburgo per una manciata di voti a beneficio di Milazzo.
Musumeci, il saldatore della maggioranza, sta venendo meno al suo scopo: fare da collante. Ad esempio ha deteriorato, e non poco, i rapporti con Fratelli d’Italia e con Giorgia Meloni, all’indomani della decisione di dichiararsi neutrali per le Europee. Allontanando Stancanelli dalla sua Diventerà Bellissima, di cui l’ex sindaco di Catania era stato co-fondatore, per ottemperare a un sofisticato principio di neutralità, secondo cui non valeva la pena schierarsi a fianco di FdI, “un partitino che resta inchiodato al 2-3%”. Ha preso quasi l’8. “Le scelte politiche di Nello ultimamente non le capisco” ha dichiarato la Meloni, a mo’ di sfottò, durante la sua ultima discesa in Sicilia.
E sempre Musumeci, che ha provato a federarsi con Salvini per salire sul carro del vincitore, dalla Lega s’è visto rispondere picche: “Pensi a fare il governatore” ha ribadito il Ministro dell’Interno direttamente da Caltagirone. I tentativi di abbordaggio, operati con la complicità di personaggi poco stimati dal Carroccio – Genovese jr, Lantieri e Rizzotto per citarne alcuni – non sono piaciuti nemmeno al pro-console Candiani, che ha preso le distanze dall’attuale giunta. Dove soltanto l’Udc, in apparenza, se ne sta buono. Anche se il partito dello scudo, giovedì scorso, ha disertato l’aula per un impegno romano, e la discussione per il “collegato” del “collegato” è slittata al pomeriggio, dato che Sala d’Ercole era pressoché deserta (presenti soltanto una decina di deputati della maggioranza). La compagine di governo, che non è mai stata una vera maggioranza, è più sfilacciata che mai. Il rimpasto d’autunno potrebbe essere l’unico vaccino. La pausa di agosto servirà a fare luce sugli equilibri che durante il dibattito parlamentare non hanno retto – quasi mai – di fronte allo scoglio del “voto segreto”.
Con il Pd ridotto in frantumi e il centrodestra che ansima, restano i Cinque Stelle. Apparentemente l’unico partito coeso. Il gruppo parlamentare più numeroso (venti deputati). Un bel bottino di voti in tasca. Soltanto Di Maio, prima delle ultime Europee, aveva messo in imbarazzo i rappresentanti locali, imponendo come capolista una sarda. Poi le cose sono andate più o meno lisce, fino a qualche giorno fa, quando Giancarlo Cancelleri, in un’intervista su Repubblica, aveva aperto al dialogo col Pd (salvo rimangiarsi tutto sui social). Ecco, il Pd. Lo stesso Pd che adesso apre un canale coi grillini. Un’operazione pericolosa per tutti: anche per i Cinque Stelle. La cui base difficilmente capirebbe.