Spesso la politica assume la forma dell’acqua. Varia. Si adatta. Non è questo il caso di Nello Musumeci, le cui posizioni appaiono imbalsamate. Escluso il tentativo di piazza San Giovanni, in cui ha cercato di attirarsi le simpatie del popolo del centrodestra con la sua adesione a un progetto che “ci condanna a stare insieme”, l’immobilismo di Diventerà Bellissima, che in tanti rivendicano come “coerente”, rischia di emarginare il governatore siciliano. In parte ci ha già pensato la scelta fatta la primavera scorsa: quella di non federarsi con nessun partito del centrodestra, rinunciando a priori alla possibilità di eleggere un parlamentare a Strasburgo. Una decisione che ha pesato sui rapporti con Lega e Fratelli d’Italia. Il governatore se ne uscì con dichiarazioni svizzere, di neutralità, provando a denunciare i limiti di un “partito del 2%” come quello della Meloni, che poi prese il 7% e portò in Europa Raffaele Stancanelli, co-fondatore di Diventerà Bellissima. E’ stato il karma, per primo, a voltare le spalle a Musumeci.
Eppure il presidente della Regione siciliana, che ha scelto di ritirarsi sull’Aventino anche a Palermo (in attesa che l’Ars modifichi il regolamento sulla parte che riguarda il “voto segreto”), mentre la Sicilia scende in piazza con gli agricoltori e coi sindaci che non sanno dove smaltire la monnezza, osserva fuori dalla finestra il riposizionamento della politica siciliana e dei suoi leader, tutti impegnati in un’ardimentosa ricerca dell’assetto migliore. Siamo al giro di ricognizione di una lunga gara automobilistica. In cui Musumeci ha un solo compagno di scuderia: si chiama Giovanni Toti, è il governatore della Liguria, e ha da poco fondato un partito (Cambiamo) che nei sondaggi viaggia a cavallo dell’1%. Non granché. Se si tornasse a votare in primavera, non godrebbe di ampia rappresentanza in Parlamento. Anche se dovesse federarsi con l’amico Nello.
Il presidente siciliano ha già perso molti treni. Su tutti, quello della Lega. Musumeci aveva provato a ingraziarsi Salvini (“Lo farò vincere al Sud”), ma alcune mosse spericolate – come accogliere il figlio di Francantonio Genovese nella nuova formazione di “Ora Sicilia”, o scippargli Tony Rizzotto, l’unico parlamentare del Carroccio all’Ars – le ha pagate a caro prezzo. Candiani l’ha già scaricato un paio di volte: la prima dopo il pomeriggio dell’ “Orgoglio Italiano” a Piazza San Giovanni (“Non mi risulta che in Sicilia governiamo insieme, con Musumeci ci separa un abisso” disse il commissario della Lega). L’ultima venerdì scorso, quando accogliendo l’apertura di Gianfranco Micciché sulla sburocratizzazione delle pubbliche amministrazioni, ha lanciato una stoccata al governatore: “Il paradosso reale è parlarne con Miccichè e non con Musumeci. Dovrei parlarne con chi amministra, invece mi trovo a parlarne con chi fa politica”. Una delegittimazione in piena regola.
E’ come se Musumeci volesse allontanare il più possibile il momento della “scelta”. La sua politica non abbaglia più. O volesse costruire il suo futuro – e una eventuale ricandidatura – all’ombra dei partiti tradizionali, che frequenta solo a Roma (mentre all’Ars è una continua scazzottata). A tal proposito Stancanelli gli ha già recapitato un “avviso di garanzia” (o di sfratto): “In Sicilia manca un leader. Nel 2022 il mio sostegno andrà a chi si dimostrerà in grado di unire, e non di dividere”. Resta il fatto che la tensione è palpabile: lo dimostrano le sfuriate del governatore ai deputati, sia in occasione del dibattito sulla questione finanziaria – in cui ha difeso a spada tratta l’operato dell’assessore all’Economia, Gaetano Armao – che il giorno della discussione sulla riforma della governance dei rifiuti, impallinata da alcuni onorevoli della sua maggioranza col “voto segreto”.
Tutt’attorno alla politicuzza del governatore, fatta di serietà e immobilismo, molta semina e poco raccolto, si snodano le manovre dei suoi competitor. La Lega, che si muove sotto traccia, avrebbe chiuso l’accordo con Nino Minardo, attuale commissario provinciale di Forza Italia a Ragusa, che in passato aveva già lasciato Berlusconi per l’amico Angelino Alfano. Minardo, che è un deputato alla terza legislatura, ha ottenuto il via libera di Gianfranco Miccichè e si eleverebbe al ruolo di “pontiere” tra due fazioni che in Sicilia non sono mai scese a patti. E che invece, adesso, sono pronte a un’alleanza di ferro. Lo ha confermato persino Candiani, spiegando che non si tratta di un semplice passaggio di un deputato, ma “di una figura che è stata e dovrà essere parte propulsiva per un rinnovato accordo tra la Lega e Forza Italia nell’ottica di una seria e immarcescibile ristrutturazione dell’area di centrodestra nell’Isola”.
Potrebbe seguire Minardo anche l’altro ibleo Orazio Ragusa, presidente della commissione Attività Produttive all’Ars, un passato nell’Udc. Che al momento, però, nega a Buttanissima qualsiasi coinvolgimento: “E’ una voce infondata. Io faccio parte del gruppo di Forza Italia e non vado da nessuna parte. Quelli della Lega neanche li conosco”. Pure Fratelli d’Italia è un partito in espansione: la sua campagna acquisti è cominciata dopo le Europee, quando ha ufficializzato l’arrivo – o meglio, il ritorno – del sindaco Salvo Pogliese e di un bel drappello di catanesi, fra cui l’ex vicecommissario regionale di Forza Italia, Basilio Catanoso.
Ma il più attivo di tutti è Matteo Renzi, che nell’ultimo periodo ha assunto le proporzioni di una valanga. E continua a raccogliere adesioni per il progetto di Italia Viva. Che in Sicilia si compone di una parte fissa – tra cui i fuoriusciti del Pd, Luca Sammartino e Giovanni Cafeo, e quelli di Sicilia Futura, Tamajo e D’Agostino – e di una parte variabile: ossia tutti coloro che guardano con estrema attenzione al nuovo progetto centrista, che secondo Berlusconi però contiene ancora qualche scoria di sinistra. Per questo il Cav. ha invitato i “suoi” a non seguirlo. In molti, però, potrebbero cedere. L’appuntamento di sabato pomeriggio al centro fieristico Le Ciminiere di Catania, però, è stato il lancio dell’operazione-Renzi, che nell’Isola ha un nome e un cognome: Davide Faraone.
Uno dei più acerrimi avversari di Musumeci (ricordate il botta e risposta sull’abbandono dei siti archeologici?) durante la fase trascorsa alla guida del Pd regionale. A proposito del Pd: come Musumeci, attende di capire da che parte tira il vento. Saranno fondamentali i prossimi mesi, anche se la guida di Alberto Losacco, il commissario (brindisino) venuto da Roma, non appare così incisiva. Ma si limita al compitino: in questo caso, l’avvio del tesseramento e la transizione verso i congressi provinciali. In quello regionale, che si terrà l’anno prossimo, si proveranno a stanare gli ultimi ex renziani e i correntisti più accaniti. Per risollevare un partito che non ha più tregua dai tempi di Crocetta.