Con tutti i veleni e i rancori del caso, almeno il centrodestra dà la sensazione di esserci. Di giocarsi la partita. E molto probabilmente, specie a Catania, di vincerla. La sinistra no. Riciclata mille volte – dal campo stretto al campo largo e ritorno – dà sempre l’impressione che dietro l’angolo sia pronto uno sconquasso. E le solite scuse sul congresso, sul cambio di leadership, su Letta e sulla Schlein, sull’alleanza malconcia coi Cinque Stelle. Anche loro, per la verità, fanno sempre più parte del campo progressista. Dove c’è spazio per tutti, indiscriminatamente. Tanto che a Catania, per citare il capoluogo più importante al voto, Enzo Bianco s’è sentito in dovere di partecipare alla competizione con una propria lista (a sostegno di Maurizio Caserta) dopo che la Corte dei Conti ha sancito la sua incandidabilità per dieci anni.
Bianco c’è comunque, perché instilla un ricordo che a molti piacerà (e a molti no). Darà una mano da dietro le quinte, ma è importante che il suo nome appaia. La presenza di una lista collegata all’ex sindaco, d’altronde, rimargina una volta per tutte la spaccatura, l’ennesima, che si era materializzata in avvio di campagna elettorale, quando Bianco aveva preso le distanze dal Pd (all’indomani della scoppola subita da Bonaccini in provincia), decidendo di candidarsi in solitaria. Oggi, invece, va a braccetto con Maurizio Caserta, il docente universitario individuato da Pd e M5s dopo la rinuncia forzata ad Emiliano Abramo, la guida della Comunità di Sant’Egidio, che ha abbandonato la nave dopo aver capito che – forse – non c’era abbastanza spazio per includere altri.
Alla sinistra manca sempre di più il centro, ormai disgregato in mille pezzi, anche se la scomparsa del Terzo Polo potrebbe rimescolare un attimo le carte. Ma siamo sempre lì, a spremerci per capire cosa vogliano i progressisti da questa competizione elettorale: cercare di vincere, dopo i cinque anni singhiozzanti di Pogliese, sarebbe un dovere morale e civile. Nessuno però ha intenzione di pronunciare la parolina magica: perché nessuno ci crede davvero, e sarebbe un salto nel vuoto. E così, come sempre, ci si accontenterà di ben figurare. Arrivando secondi, al limite provando a strappare un ballottaggio e un applauso, dichiarando, all’indomani del voto, che il cammino è quello giusto.
Eppure, nell’Isola, il centrosinistra non riesce più a ingranare. Le ultime elezioni, sia Regionali che Politiche, hanno riconsegnato alla base un Pd senza identità, che sfigura nel confronto con le grandi potenze del momento, Fratelli d’Italia su tutte. E che neppure nel dibattito interno – basti ripensare alla questione degli ‘impresentabili’, alla gestione dei paracadutati, alla candidatura della Chinnici – è riuscita ad affermare un minimo di sentimento comune. Di lotta condivisa. Di valori da coltivare. Niente. Il Pd ha proceduto a tentoni, accontentandosi di qualche posticino al sole, come la presidenza della commissione Antimafia assegnata ad Antonello Cracolici, e rinunciando a fare ciò che si richiederebbe a un’opposizione seria (l’ultimo tentativo di Barbagallo è un ordine del giorno nei 391 comuni siciliani per dire ‘no’ all’autonomia differenziata). Peraltro di fronte a un governo regionale cinico, colpevole di inciampi più o meno grossolani sulla sanità e sul turismo, sui burocrati e sul fotovoltaico.
Ma è come se le parole di Schifani e dei suoi assessori (o di quelli di Musumeci) riecheggiassero nell’aere impunite. E’ come se fossero impossibili da inseguire e contrastare. O quanto meno contestare. Il Pd s’è detto a favore del ritorno delle province e ha opposto una resistenza sterile (e postuma) rispetto all’aumento delle indennità dei parlamentari per andare incontro agli adeguamenti Istat. Non ha graffiato sui soldi gettati alle ortiche dall’assessorato al Turismo (in campagne di comunicazione di dubbia utilità) per appagare le manie di grandezza di qualche amministratore. Non ha aperto bocca su una Finanziaria omnibus, che ha finito per premiare tutti i deputati e tutti i territori, compresi quelli amministrati dal centrosinistra.
L’addio di Anthony Barbagallo, approdato alla Camera dei Deputati (nonostante sia ancora segretario regionale) ha tolto smalto al gruppo parlamentare dell’Ars, composto per lo più da new entry. Ma anche sui territori manca linfa: la sconfitta subita dall’europarlamentare Caterina Chinnici, una che al Pd non è neppure iscritta, ha fatto il paio con la debacle dell’architetto Franco Miceli a Palermo. A Catania è stato scelto un docente universitario, ma nel resto della Sicilia le proposte appaiono addirittura meno chiare. E arzigogolate.
Fa scuola il caso Trapani, dove l’uscente Giacomo Tranchida è uomo del Pd, ma ha chiesto che nella scheda elettorale non comparissero simboli di partito (c’è persino qualche leghista a sostenerlo). Così ha chiesto di appropriarsene Francesco Brillante, che se la gioca con l’appoggio dei grillini e di Cateno De Luca. Un campo larghissimo, prossimo al suk. Più ridotto il perimetro a Siracusa, dove Renata Giunta ha ricompattato il fronte giallorosso. Mentre a Ragusa non sono ancora svaniti gli effetti del golpe 5 Stelle ai danni del governo Draghi, che provocò l’insanabile spaccatura fra Conte e Letta: il M5s infatti ha scelto di non sostenere il candidato progressista Riccardo Schininà “perché abbiamo trovato tutto apparecchiato” (parole della deputata Stefania Campo a ‘La Sicilia’), e ha puntato le proprie fiche su Sergio Firrincieli. Che corre da solo.
In questa coalizione, ammesso che possa chiamarsi tale, regna una confusione non indifferente. E nemmeno del futuro v’è certezza: la vittoria della mozione Schlein, infatti, ha spalancato le porte al cambiamento, a un ritorno a sinistra, alla lotta contro le diseguaglianze, a enunciazioni di principio in cui il Pd ha fatto scuola. Peccato che a furia di dare lezioni abbia perso il contatto con la realtà. E non abbia neppure quantificato i danni delle recenti delusioni elettorali (all’ultima assemblea i dem decisero di soprassedere su ogni decisione in attesa del congresso nazionale). Anche Caserta, a Catania, di fronte all’invadenza di Bianco, è quasi caduto dal pero: “L’area è quella del centrosinistra allargato, poi lo possiamo chiamare in tanti modi, fronte progressista, campo largo. Si sta cercando di allargare il fronte non governativo. Direi che quello con Bianco è un percorso che personalmente avevo auspicato e che sembra potersi realizzare”. Si è già realizzato, c’è pure una lista che porta il suo nome. E sembra anche l’unico modo per restare a galla.