Esaltare la vittoria in Umbria, e – sulla scia del pienone di piazza San Giovanni – spacciarla come “propria”, non ha riconsegnato a Nello Musumeci la titolarità di un percorso di ricostruzione che il centrodestra siciliano prima o poi dovrà affrontare. Uno spunto, in tal senso, arriva da Raffaele Stancanelli, chiaro come sempre: “Anche la Sicilia dovrà agganciarsi ai partiti nazionali”. Il voto in Umbria, e prima in Abruzzo, Molise e Sardegna, è quanto di più lontano dal clima d’intifada alla Regione. Lì ha vinto un centrodestra unito, raggruppato sul carro di Salvini; qui la Lega non è al governo, e nemmeno in parlamento, e in assenza di un leader certo (Stancanelli dixit) non si fa altro che litigare.
La Sicilia, insomma, è distante anni luce dal continente sovranista. Anche perché è moderata per vocazione e, ed esclusione delle ultime elezioni Europee, hanno sempre prevalso la misura e il buonsenso. Tant’è che persino all’ultimo giro, con la Lega di Salvini al 20% e Fratelli d’Italia in netta crescita, la “vecchia” Forza Italia, spinta da numerose formazioni centriste (a proposito: che fine faranno?), ha racimolato un 17% che altrove è una chimera. Ma anche quel campanello rischia di suonare come un’amara e inutile conservazione dello status quo. Che porta poco consenso e confina sui binari dell’ininfluenza.
Prendete, appunto, Forza Italia. Il logorio fisico e plastico della formazione di Berlusconi è palese soprattutto in Sicilia, nonostante il 17%. Micciché, con una finta di corpo, ha eluso le marcature ed è arrivato sul punto di “minacciare” un nuovo Grande Sud, perché in FI non si dà abbastanza spazio alle ragioni e agli uomini del Meridione; il gruppo parlamentare chiede un incontro al Cav. per rimettere insieme i cocci; l’assessore Gaetano Armao si comporta da perfetto anarchico, agendo per nome e per conto di se stesso, e infischiandosene del partito; Salvo Pogliese, il sindaco di Catania, si è trasferito armi e bagagli in FdI prima delle elezioni. E Berlusconi che fa? Decide di non decidere, sfoderando come sempre l’arma del compromesso e appiattendosi sulle posizioni di Salvini, che i forzisti siciliani (ma anche la Carfagna ed altri esponenti del Mezzogiorno) non hanno mai approvato.
Che la Sicilia sia diventato il Calimero d’Italia, però, è evidente anche su altri fronti. All’ennesimo salto della quaglia di Musumeci, dopo le elezioni umbre, ha replicato il commissario leghista Candiani: “Musumeci, a piazza San Giovanni, ha detto che in Sicilia governa con la Lega. Forse stava sognando. E’ una circostanza che francamente mi sfugge”. E ha rincarato la dose: “Quando noi governeremo davvero la Sicilia se ne accorgerà anche lui. E pure i siciliani, che non ne possono più di giocolieri e avventurieri di palazzo. Con Musumeci ci divide un abisso” ha detto al quotidiano “La Sicilia”. Sembra un avviso di sfratto. L’ennesimo nei confronti del presidente della Regione, reo di non aver deciso quando ne avrebbe avuto l’occasione – alle Europee scelse di starsene in disparte – e di aver pescato male (il riferimento è a Genovese jr e Rizzotto) quando provò a creare all’Ars una stampella del Carroccio (Ora Sicilia). Ora è troppo tardi. E al di là delle strette di mano, dei selfie e delle pacche sulle spalle – è successo anche a Roma di recente – la Lega quasi lo schifìa.
Non sarebbe la sola. Anche Fratelli d’Italia non è molto propensa nei confronti del governatore. Stancanelli, parlando con Buttanissima, ha detto che in Sicilia non esiste un leader e che al prossimo giro (le Regionali del 2022) ne servirà uno. Difficile possa essere Musumeci, anche se il sindaco Pogliese, divenuto il nuovo faro dell’ex movimento missino, rimane possibilista: “E’ giusto che pensi al suo secondo mandato”. Ma i rapporti tra Nello e la Meloni, dopo l’unione improduttiva delle ultime Politiche e il mancato sposalizio del maggio scorso, sono ai minimi termini. All’alba di metà legislatura nessuno sembra disposto a tendere la mano al governatore. Tanto meno a garantirsi una seconda elezione a palazzo d’Orleans. Il centrodestra siciliano è figlio delle proprie liti (l’ultima fra il governatore e Micciché rischia di mandare il governo gambe all’aria) e delle proprie contraddizioni. Non c’entra un fico secco con la cavalcata trionfale nel resto del Paese.
Ma anche a sinistra la “pesca” siciliana non va benissimo. Prendete Matteo Renzi. A parte la rapida apparizione, via chat, all’evento di formazione politica di Terrasini (organizzato da Davide Faraone) da queste parti non s’è più fatto vivo. E a parte Faraone, che dal primo momento si è mostrato fedele all’ex premier, Italia Viva stenta a trovare adepti. L’unica ad aver fatto un passo concreto è l’ex deputata del Pd, Valeria Sudano. Qualcuno ha annuito, come i deputati di Sicilia Futura (Edy Tamajo e Nicola D’Agostino, ma Totò Cardinale al momento si è tirato fuori). Mentre Luca Sammartino, il solo “indiziato” all’Assemblea regionale, non si è ancora affrancato dal gruppo del Partito Democratico. Ha assistito dal vivo all’ultima Leopolda, ma aspetta che i tempi siano maturi.
Che l’Isola rimanga fuori dai quadri nazionali, d’altronde, s’è intuito anche al momento della scelta del nuovo governo. Il Pd ha promosso Peppe Provenzano (che ai giochetti del partito siciliano aveva assistito solo da spettatore), e bocciato tutti i candidati a un ruolo da sottosegretario. Il Movimento 5 Stelle ha premiato la catanese Nunzia Catalfo, ministro al Lavoro, e Giancarlo Cancelleri, vice alle Infrastrutture. Ma con l’esperienza di governo ormai al collasso, quanto potranno incidere? La Sicilia, da sempre laboratorio di idee e di alleanze, rischia di rimanere ai margini. Dai palazzi del potere e dalle decisioni che contano. Un brutto scherzo del karma…