Ma dov’è finita la Sicilia di una volta, quella Sicilia ribalda e stracciona che piaceva tanto agli inviati dei grandi giornali, a quegli inpettiti cercatori della verità che dopo ogni elezione calavano dal nord per irridere e sfregiare chiunque non la pensasse come loro? Dove sono finiti i santoni del giornalismo, come Eugenio Scalfari o Gianpaolo Pansa che scendevano a Palermo, in partibus infidelium, e si incapriccivano persino di deridere il timido e onestissimo Leonardo Sciascia che, da illuminato qual era, metteva già il dito sulla piaga dei professionisti dell’antimafia? E dove sono finiti i picciotti di vita e malavita che negli anni del berlusconismo – stando al racconto degli inviati –offrivano a piene mani clientele e voti di scambio? E dove sono finiti i boss che – stando a quegli stessi racconti – partivano in massa verso Arcore al solo scopo di stringere col Cavaliere Nero un patto scellerato di mutuo soccorso e puntualmente intramavano ogni sorta di nefandezza pur di fermare il radioso cammino delle masse popolari che si incantavano davanti ai quadri di Guttuso e intanto votavano per il glorioso partito di Achille Occhetto?
Niente, non esiste più niente. L’onda gialla della vittoria grillina ha cancellato di colpo ogni lordura, ogni cupezza, ogni sospetto. La Sicilia è diventata all’improvviso una regione linda, nitida, trasparente. Dove non c’è voto di scambio e neppure un voto inquinato, dove la mafia – se esiste, ovvio: meglio una precisazione in più che una precisazione in meno – preferisce stare a guardare e godersi la festa senza mettere nemmeno un ditino nell’acqua fredda delle urne e nel consenso. E’ una Sicilia da paradiso riconquistato quella che l’altro ieri ha assegnato oltre il cinquanta per cento dei voti al Movimento di Luigi Di Maio. Chi avrà mai il coraggio, tra i tanti giornalisti coraggiosi che si sono spesi negli anni maleodoranti del berlusconismo, di andare in Sicilia per scoprire se per caso – un caso maledetto – ci sia stato, dietro un così grande successo, un piccolo Marcello Dell’Utri o uno stalliere, magari di terza o quarta categoria, convertitosi nell’ultimo momento al galantomismo dei purissimi e durissimi grillini?
Sulla Sicilia il nobile giornalismo d’inchiesta, inebriato dall’exploit dei Cinque stelle, si è di colpo ammutolito e preferisce guardare a quelle terre, un tempo striate di sangue e di intrighi, con “il bianco candore di un sunnambolo”, tanto per dirla con le parole colte e raffinate di Alberto Savinio. Ma, tra tante incontaminate certezze, almeno un dubbio va posto. Questo: e se l’abito della rivoluzione, tirato fuori dall’armadio il 4 marzo, fosse l’ennesimo travestimento di una Sicilia seducente e verminosa, furbesca e irredimibile?
Per abbozzare una risposta a questa domanda – una domanda inquietante, direbbero i giornalisti coraggiosi – il primo elemento che salta agli occhi è il raffronto tra le due ultime elezioni. Il 5 novembre dell’anno scorso, quando i siciliani furono chiamati alle urne per eleggere la nuova Assemblea regionale, la coalizione di centrodestra pazientemente costruita da Gianfranco Micciché in stretto contatto con Berlusconi, riuscì a conquistare la maggioranza e a imporre una giunta di governo presieduta da Nello Musumeci, rigoroso uomo di destra; e riuscì anche a imbrigliare il movimento di Beppe Grillo entro i confini di un 26 per cento. Dopo appena 120 giorni, alle elezioni nazionali del 4 marzo, la situazione di colpo si è ribaltata: il centrodestra scivola e si ferma su un affannato 30 per cento mentre i Cinque stelle raddoppiano i consensi e sfiorano il 50 per cento. Un trionfo. Che le bande musicali di non poche città, piccole e grandi, celebrano ancora con pennacchi al vento e assordanti rulli di tamburo. Come mai?
Nei quattro mesi che separano le due elezioni, i siciliani probabilmente si sono resi conto che neppure la giunta di Musumeci, sarebbe stata in grado di garantire un minimo sindacale di efficienza e di immediatezza: un po’ perché non ci sono più soldi e un po’ perché la magistratura bianca – quella dei Tar e della Corte dei Conti – ha il potere obliquo dei legacci ed è in grado di paralizzare e soffocare ogni organo di decisione politica. Non solo. Sotto l’ombrello di Musumeci, per quanto impenetrabile e rigoroso, hanno trovato spazio tutti quei personaggi, a cominciare dal vice presidente Gaetano Armao, che erano stati buoni per tutte le stagioni precedenti – anche le più avventate, politicamente parlando – e che nel nuovo centrodestra hanno individuato l’occasione preziosa per riconquistare il potere e riprendere comodamente le vecchie abitudini.
Quattro mesi di bagnomaria e di stramberie – non ultime quelle di Vittorio Sgarbi, assessore ai Beni culturali – non potevano, ovviamente, che seminare disagio, delusione e, perché no, anche una buona dose di rabbia e indignazione. A tutti i livelli.
Sono rimasti fortemente delusi, intanto, tutti quei siciliani che vivono da anni, da troppi anni, adagiati sul ventre molle di uno stato sociale, slabbrato e clientelare, che ha distribuito prebende e privilegi a categorie ormai non più proponibili, dai forestali ai quali è consentito, oltre all’assegno pagato dalla regione, un doppio o triplo lavoro in nero, agli eterni precari del Lsu, del lavoro socialmente utile. Tutti poveri cristi, per carità, ma tutti attaccati alla grandi mammelle di Palazzo d’Orleans. Come gli ottomila e passa disoccupati che sopravvivono di anno in anno aggrappati ai fantomatici corsi di formazione, a quei baracconi, di scandalo e spreco, che non riescono a piazzare neanche un disgraziato nel tanto agognato mondo del lavoro. Fino a quando resisteranno?
Musumeci, con i mezzi che ha a disposizione, non potrà garantire a nessuno un futuro a medio e lungo termine. Molto meglio allora, per chiunque viva di assistenza, rivolgere uno sguardo convinto e speranzoso verso quel reddito di cittadinanza che il Movimento di Grillo ha trasformato in una bandiera di salvezza per ogni precario e per ogni disoccupato. I soldi – quella moneta che i siciliani chiamano manza, cioè docile e mansueta perché arriva senza la dura fatica del lavoro – verranno da Roma e saranno una pacchia da aggiungere, quasi certamente, alle pacchie già inventate e amministrate direttamente dalla Regione.
Certo, sarebbe a dir poco ingeneroso affermare che la scelta dei Cinque stelle nasca esclusivamente da una Sicilia attorcigliata al suo poveraccismo e alle prerogative che nascono dai meccanismi assistenziali: la maggioranza di quelli che hanno dato il voto a Grillo lo hanno fatto di sicuro per una libera scelta, per affermare una protesta o per sperare in una soluzione politica nuova e diversa. Ma la politica, si sa, è anche punto di confluenza dei più disparati interessi. E in Sicilia – ce lo ricordano sempre i giornalisti coraggiosi – tra i tanti interessi legittimi ci sono anche quelli, poco raccomandabili, delle mafie, delle mezze mafie, delle consorterie. Queste confraternite, chiamiamole cumulativamente così, hanno avuto un ruolo nella clamorosa svolta grillina del 4 marzo?
Difficile a dirlo: c’è il segreto dell’urna e c’è anche il segreto conventicolare di ogni clan, di ogni loggia, di ogni cosca. Ma, a occhio e croce, neanche le confraternite possono ritenersi soddisfatte dell’ultima stagione della politica.
L’immobilismo del rigoroso Musumeci non promette molto e, per di più, con Musumeci i pochi spazi d’affari ancora agibili sono ridiventati appannaggio esclusivo dei vecchi feudatari: di quelli che dettavano legge ai tempi di Totò Cuffaro, poi di quelli che dopo Cuffaro si sono alleati con Raffaele Lombardo e che ora – dopo la parentesi di Rosario Crocetta, presidente sottovuoto – sono tornati in sella più arroganti e baldanzosi di prima. Creando tra gli esclusi, che sono tanti, una inquietudine pari alla voglia di rivincita e una insofferenza grande quanto il desiderio di rimescolare subito le carte.
Chissà. La valanga grillina potrebbe anche assolvere a questo compito. Ma il giornalista coraggioso, statene certi, non lo scriverà mai. Viva la rivoluzione.