Il canovaccio è quello di sempre: i veri responsabili, artefici di una sanità che non funziona, la fanno franca. A pagare per tutti sono gli ultimi della classe: il primario facente funzioni del Pronto soccorso di Patti, la direttrice dell’ospedale dei Bambini di Palermo. O una caposala qualsiasi, per la “mancata gestione dei magazzini farmaceutici e mancato approvvigionamento dei dispositivi medici”. L’episodio della frattura immobilizzata coi cartoni, al “Barone Romeo” di Patti, è una storiella di malasanità, e nemmeno la più grave, di fronte alla quale la politica finge di sorprendersi. Le cadute dal pero di Schifani non si contano più, ma, al netto dei casi isolati (che cominciano a diventare parecchi), il presidente della Regione, e l’assessore alla Salute in sua vece, dovrebbero conoscere a menadito le criticità degli ospedali. Ma non hanno ancora imparato a correggerle dal vertice della piramide da cui amministrano il malato (inteso come sistema).
E così, all’indomani dell’indignazione pubblica suscitata da alcuni articoli di stampa – c’è pure la denuncia di due genitori che hanno perso il figlioletto nel reparto di Cardiochirurgia pediatrica del “Civico” di Palermo – anziché prendere il toro per le corna, Schifani, per il tramite dell’Asp di Messina, ha ottenuto di sollevare dall’incarico la responsabile del Pronto soccorso poiché lo stesso “era stato conferito nel 2021 con modalità non conformi alla vigente normativa contrattuale di categoria”. Ci hanno messo tre anni e uno scandalo per accorgersene. Poi ha gonfiato il petto per il procedimento disciplinare “nei confronti del direttore sanitario del presidio ospedaliero dell’ospedale di Patti per mancata vigilanza in ordine alle procedure di approvvigionamento”; stessa richiesta nei confronti della caposala di cui sopra. Ciò nonostante ha disposto un’ispezione indipendente. Per apprendere ciò che tutti sanno: la sanità siciliana è all’ultimo stadio.
Il quadro emergerà limpido anche dall’indagine condotta da due professionisti al “Civico” di Palermo, dove è stata denunciata la scarsa attenzione di medici e infermieri verso un piccolo paziente della Cardiochirurgia, deceduto dopo cinque mesi di calvario. “Nel momento della morte – hanno raccontato i genitori con una lettera a Repubblica – non era presente neanche il medico di guardia, solo un infermiere. A confortarci solo la donna delle pulizie che piangeva insieme a noi. Abbiamo dovuto ricomporre e vestire noi il corpicino di nostro figlio che volevano mettere nudo in un sacco per trasferirlo in camera mortuaria”. In questo caso, però, trattasi di situazione assai più delicata: il reparto, infatti, è affidato al gruppo milanese San Donato, presieduto dall’ex ministro Angelino Alfano, che opera in regime di convenzione da un anno. Saranno tali le mancanze da imporre una riflessione sulla natura stessa di questa collaborazione?
Una denuncia più o meno simile, sempre a mezzo stampa, era arrivata alcuni mesi fa da una madre che aveva trasferito il figlioletto al “Gaslini” di Genova dopo aver valutato negativamente i servizi erogati dall’ospedale pediatrico “Di Cristina”. Anche in quel caso Schifani attivò immediatamente la caccia alle streghe, ritenendo responsabile la dottoressa Desirée Farinella, in qualità di responsabile del presidio. Il primo atto del nuovo manager, nominato dalla politica nonostante gli insuccessi del passato, tale Walter Messina, fu quello di demansionarla: un provvedimento subito contrastato dai colleghi e dagli avvocati di parte, che terminò con una presa di posizione da parte del Dasoe, il Dipartimento regionale delle Attività sanitarie, secondo cui le risultanze ispettive “non prospettavano responsabilità individuali bensì di sistema”. Era finita con l’ennesimo buco nell’acqua.
Da questi precedenti bisognerebbe imparare che le responsabilità di un sistema in tilt non dipendono dai pesci piccoli: essi sono interpreti di passaggio. Chi l’amministra dall’alto, la politica, dovrebbe avere il buonsenso di fissare delle regole e agire di conseguenza, anziché affidare le nomine dei direttori generali delle Aziende e degli ospedali a un sistema di lottizzazione tipico del sottogoverno. Una suddivisione a tavolino fra partiti, al termine di trattative infinite, che ha lasciato strascichi pesanti sotto il profilo delle competenze e della responsabilità. Specie nei casi in cui, come all’Asp di Palermo o al ‘Civico’, si è deciso di insistere su profili incompatibili. Messina aveva già subito un paio di commissariamenti quand’era al vertice dell’azienda Cervello-Villa Sofia, ma è stato ripescato grazie ai buoni uffici di Fratelli d’Italia. E anche la Faraoni, lungi dal brillare e vicina al trasferimento a Catania, ha trovato nuova linfa.
Sopra di loro c’è un assessore, Giovanna Volo, che non è mai finita sul banco degli imputati nonostante i flagelli di questo primo anno e mezzo di governo. Più si nasconde, dalle interrogazioni dei parlamentari e dalle trattative coi convenzionati; più viene premiata, con la permanenza a piazza Ottavio Ziino. Costituisce per Schifani un cuscinetto di garanzia, che lo preserva dal dover rendere conto direttamente dello stillicidio in atto; e gli garantisce un margine di controllo e di potere nel terreno permeabile della sanità, che ora come allora rappresenta un indotto di saccheggi clientelari, con criteri persino più selvaggi dalla spartizione delle mance durante le manovre di bilancio. Anche l’Assemblea, in questo marasma sempre uguale, ha scelto di defilarsi lasciando campo libero a Schifani e ai partiti; aveva minacciato di bloccare le nomine dello scorso gennaio, chiedendo una integrazione documentale sui 18 profili scelti per i vertici aziendali, poi se l’è data a gambe – col silenzio assenso in commissione – prima di poterli giudicare nel merito, e bocciarli in caso di necessità.
Nonostante le critiche di Lombardo, l’unico ad aver sviscerato i problemi infrangendo la catena dell’omertà (“La Sanità ha bisogno oggi più che mai di uomini e donne che sappiano dire di no – ha detto il leader del Mpa -. Schifani trovi una personalità di alto livello morale e professionale per dirigere il settore. Ammesso che se ne trovino”), il governo del sistema non è cambiato di un’unghia. Tranne che per una clausola farlocca inserita nei contratti dei nuovi direttori generali, nominati dalla politica dopo un tira e molla di cattivo gusto: prevede “obiettivi specifici e concreti specialmente sulla riduzione delle liste d’attesa, con un monitoraggio trimestrale e una verifica annuale del raggiungimento degli stessi, a pena di decadenza automatica dei direttori generali anche dopo il primo anno dall’insediamento”.
Sulla testa di questi professionisti selezionati dalla politica, incombe la minaccia della revoca. E sembra che i diretti interessati già fatichino a reggere la pressione: a quasi due mesi dall’insediamento (tranne casi sparuti) non sono riusciti a nominare neppure i direttori sanitari e amministrativi che, secondo i primi diktat, dovevano vedere la luce entro i 15 giorni dalla firma del contratto. Schifani, fingendo che la questione non riguardi il solito giochetto fra partiti, fa lo gnorri: “Sono scelte che i direttori generali devono adottare in piena autonomia”. E’ questo il finale più ovvio di una sanità precaria e immutabile. Che dopo aver riciclato alcuni tra i peggiori, ha scelto deliberatamente di ingabbiarli.